Mammuth è il soprannome dato al protagonista del film (interpretato da Gerard Depardieu) per analogia con la sua debordante mole, ma è anche il modello della moto anni ’70 che possiede gelosamente e con orgoglio. Mammuth ha cominciato a lavorare sin dalla giovane età senza aver mai fatto un giorno d’assenza o di malattia e adesso è finalmente giunto al momento della pensione. Scopre però che non tutti i suoi datori di lavoro (ha una biografia lavorativa decisamente eterogenea, da buttafuori a becchino a macellatore) avevano regolarmente versato i contributi a suo favore, è costretto così a partire con la sua moto per andare a ricercare i vecchi impieghi e farsi rilasciare una testimonianza di questi periodi privi di contribuzione. Dopo una squallida e surreale festicciola organizzata per il suo ultimo giorno di lavoro, i suoi anonimi ex colleghi gli regalano un puzzle con più di duemila pezzi, che il protagonista dovrà rimettere assieme come i frammenti del suo passato, seguendo la scia del lavoro che fu. Alla loro quarta collaborazione, Benoît Delépine, responsabile di una delle trasmissioni televisive più provocatorie e disturbanti di Canal +, Groland, e Gustave Kervern, attore e sceneggiatore, cesellano un ulteriore microcosmo di figure ai margini.
Come già in Aaltra (2004), Avida (2006) e Louise-Michel (2008), la coppia immerge lo spettatore in una sorta di universo parallelo, di simulacro iperrealista, in cui affiorano in superficie i rimossi del sistema sociale contemporaneo con le sue contraddizioni e aporie. Il loro cinema si basa prima di tutto sul contrasto tra personaggi e sistema: i reietti che popolano i loro film costituiscono l’apoteosi del disincanto, isole di umanità alla deriva, esistenze disarmoniche immerse in sobborghi disfunzionali e drammaticamente estranei. Mammuth è il rappresentante di una categoria dimenticata ed esclusa, destinata ad essere spazzata via, è l’inconsapevole portavoce dei perdenti della Storia. Costretto a rientrare in un quotidiano che aveva rimosso dalla sua vita per lavorare, scopre ben presto la fine epocale della cultura del lavoro: tra datori di lavoro in vacanza, piccoli esercenti invisibili al fisco, società chiuse e abbandonate, dipendenti remunerati in nero, la solidarietà di classe è un concetto dimenticato (vedi il litigio del protagonista col macellaio del supermercato, interpretato dallo stesso regista Kervern) e l’etica del mestiere è un vuoto a perdere.
Meno arrabbiato e anarchico/insurrezionalista rispetto al precedente Louise- Michel , è comunque sempre sorprendentemente attuale e corrosivo nel suo disvelamento del lavoro come un processo silenzioso e subdolo di spersonalizzazione. Il tocco è sempre surreale e grottesco, ma il viaggio a ritroso percorso dal protagonista alla ricerca di un’identità da ricostruire, concede maggiore spazio ai sentimenti e alla poesia, intrecciato com’è di cinismo e romanticismo, assurdità e folle tenerezza.
Nella loro lunare follia non si possono non adorare i due protagonisti: un grande Depardieu che sa commuovere ed emozionare anche solo con lo sguardo e la sempre titanica Yolande Moreau, che rendono perfettamente le intuizioni geniali del film, come la scena a letto del primo col cugino (citazione di Novecento ma senza la Casini a condurre i giochi!) o la formidabile sequenza dello spelling del cognome della seconda all’addetto del call center. Alcuni episodi risultano forse un po’ gratuiti e palesemente “dichiarati” , ma è una discontinuità di scrittura e d’invenzione riscattata nel complesso dalla tenacia e dal coraggio con i quali i due registi rispondono ad uno stile programmaticamente urticante, sperimentale, sgradevole ed anti-estetico: girato in super 16 (una pellicola ormai estinta) il film è pieno di inquadrature sghembe (Depardieu è spesso ripreso di spalle), immagini sgranate o sovraesposte, fotografia spesso fuori fuoco, sonoro in presa diretta e dialoghi scarni .
In un’intervista i due registi raccontano che «al cinema cerchiamo di fare qualcosa di diverso rispetto alla televisione, qualcosa che si concentri maggiormente sulla società. Siamo innamorati dei film di una certa epoca – quelli che trattavano con la dovuta serietà i temi sociali – almeno quanto lo siamo dell'umorismo noir del nord, un umorismo fatto di pochi dialoghi. Crediamo che il cinema di oggi, compreso quello francese, parli troppo. Il nostro modo di lavorare va nella direzione opposta.
È quasi un ritorno al cinema muto». Una forma di cinema che risponde ad una poetica libera e liberatoria, démodé e in via d’estinzione proprio come il personaggio principale: Mammuth è un uomo che vive fuori del proprio tempo, anacronistico e inadeguato come la sua moto lenta e rumorosa (esemplificativa la sequenza in cui sono sorpassati prima da un camion e poi da una velocissima moto moderna). E sarà l’incontro con un’altra “diversa”, un altro personaggio ai margini, ad innescare il desiderio di cambiamento e di rinascita in Mammuth: la sua tenera e sciroccata nipotina (interpretata da Miss Ming, già utilizzata dai due registi nel loro precedente film, folgorati dal loro incontro sulla spiaggia mentre declamava le sue poesie) che riesce a vedere nello zio delle potenzialità umane che il mondo, etichettandolo come idiota, gli ha sempre negato; assieme al fantasma dell’amore perduto in un incidente (interpretato da una sanguinante e languida Isabelle Adjani) che si materializza sulla sua strada, e ognuna a suo modo, lo inviteranno a non cambiare e a restare ingenuo e pulito com’è. Un road movie iniziatico che porta il protagonista a innamorarsi di nuovo della vita vera e della poesia, limpide come il cielo blu col quale finisce il film.
Laura Iannotta