Tratto dall’omonimo romanzo di Jay Parini, “L’ultima stazione”, è prima di ogni altra cosa la storia di un amore straordinario e complesso, quello tra il grande scrittore Lev Nikolaevič Tolstoj (interpretato da Christopher Plummer) e la contessa Sofia Bers (interpretata dalla pluripremiata Hellen Miller) sposati per quasi mezzo secolo. Michael Hoffman (autore di molti film ma nessun capolavoro) sceglie di raccontare gli ultimi giorni di vita del famoso romanziere russo, quando guidato o plagiato dal suo braccio destro Vladimir Chertkov, decide di abbracciare il movimento creatosi attorno alla sua figura, il tolstojanesimo appunto, rinunciando ai suoi titoli nobiliari e cedendo i diritti della sua opera all’intero popolo russo perché diventino patrimonio dell’ umanità, diseredando di fatto la moglie e i numerosi figli (tredici di cui cinque morti in età prematura).
Stanco delle continue e violente litigate con la moglie che gioca ogni carta in suo potere per dissuaderlo, Lev decide di andarsene abbandonandola nella notte per intraprendere un viaggio che gli costerà la vita. L’episodio della fuga di Tolstoj è così enigmatico che ancora nessuno è riuscito a comprenderne le complesse motivazioni. Non a caso il regista pensa di affidare allo sguardo innocente del giovane intellettuale Valentin Bulgakov (interpretato da James McAvoy), la possibilità di restituire allo spettatore la vicenda in modo puro e distaccato.
Assunto da Tolstoj come suo segretario personale, Bulgakov si ritroverà nel bel mezzo di una lotta al potere piena di condizionamenti e personalità indomabili. Presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma nel 2009, The Last Station utilizza la figura di Tolstoj come tramite per parlare di amore, della sua resistenza, della forza che lega due persone per tutta la vita sovrastando qualsiasi filosofia, credo o litigio. E non a caso, dal momento in cui Tolstoj credeva nell’amore come motore dell’universo.
« E’ una storia complessa, incentrata sulla difficoltà di vivere con l’amore e l’impossibilità di vivere senza» dice il regista; pur nelle divergenze, pur nel continuo allontanarsi e riprendersi, il legame che unisce i due sposi, rimane fortissimo ed esclusivo. Girato con uno stile semplice, fatto di lunghi piani sequenza e panoramiche, il film non si salverebbe se non fosse per i suoi attori. Le due interpretazioni, di sopraffino virtuosismo, sono ammirevoli e rubano la scena ai personaggi.
Per raccontare una grande storia d’amore e due personaggi famosi realmente esistiti effettivamente ci volevano attori di prim’ordine, e Hoffman sceglie non a caso due giganti del teatro shakesperiano. Non a caso perché non solo la messa inscena ha un impianto fortemente teatrale, ma anche perché la sua confezione è la stessa del tipico film in costume britannico. La Russia è lontana mille miglia, non c'è nessuno sforzo visivo di rappresentare un'atmosfera in realtà così diversa dalle campagne dello Yorkshire, e nella versione originale tutti gli attori che interpretano contadini e artisti russi hanno uno spiccato accento inglese da Royal Shakespeare Company.
Poteva essere un bel film, intimo ed epico, e alcuni passi per la verità sono anche molto commoventi, ma la bidimensionalità da ficition in costume lo rilega nel “già visto” mediocre e insapore. Da segnalare l’impagabile battuta che Tolstoj rivolge alla moglie: “Sofia, tu non hai bisogno di un marito, ma di un coro greco!” Laura Iannotta