Invictus è un film di Clint Eastwood e non ci sono dubbi su questo. Ma è anche un film di Morgan Freeman, che lo ha voluto e ha voluto farsi dirigere dal migliore amico e dal migliore regista che aveva conosciuto. Così, se l’attore di colore sembra una fotocopia del vero Nelson Mandela, il vecchio texano dagli occhi di ghiaccio presta la sua mano al progetto tratto dal bestseller “Ama il Tuo Nemico” di John Carlin. E la sua impronta, nonostante sia definibile senza tanti scandali un “film di passaggio”, si sente eccome. Del resto, il buon Clinton negli ultimi anni ha sfornato capolavori assoluti come Mystic River, Million Dollar Baby, il dittico Flags of Our Feathers e Lettere da Iwo Jima, Changeling e Gran Torino.
Possono bastare a farne il miglior regista in circolazione per prolificità e spessore degli stessi ? Non ne troverete altri che dal 2003 ad oggi hanno iscritto il proprio nome nei registri degli Academy come vincitori e nominati, o che abbiano al pari sbancato il botteghino. Per cui, concediamogli di tirare il fiato con questo Invictus, progetto un po’ spurio ma che comunque, è bene capirsi subito, si tratta di un film di tutto rispetto, di un kolossal che in mano ad altri registi sarebbe diventato insopportabile.
E non scordiamoci che a maggio di annetti ne compirà 80….. E’ abile l’uomo di San Francisco a non cadere nei rischi agiografici parlando dell’ultimo dei miti del nostro tempo : Nelson Mandela viene dipinto come un uomo soprattutto intelligente, mosso sì da ideali, ma anche da strategie “vincenti”, passatemi il termine giacchè si parla di un film che si colloca a metà fra il biopic e il cinema sportivo. Invictus è incentrato sulla Coppa del mondo di rugby del 1995, tenutasi in Sud Africa nel periodo immediatamente successivo alla caduta dell’apartheid e al conseguente insediamento di Nelson Mandela come presidente dello stato.
Il suo obiettivo è quello di unificare il paese, bianchi e neri ; e per fare questo sceglie come mezzo gli Springboks, la squadra nazionale di rugby, adorata dagli afrikaners e odiata dalle popolazioni di lingua xhosa. Riammessa alla competizione dopo il boicottaggio subito per via dell’apartheid, la nazionale sudafricana ha poche chance per la vittoria, secondo i bookmakers ; ma per Mandela, vincere la coppa del mondo sarebbe segnare il primo passo verso un paese unito, con una squadra tifata da bianchi e neri.
E per questo fine politico si interessa al rugby, impara nomi e facce di tutti i giocatori, e sceglie in Francois Pienaar (Matt Damon ) il suo alfiere sul campo. E il trionfo della nazione arcobaleno, in finale, contro i temutissimi All Blacks , è solo il primo passo ; ma , sapientemente, Clint si ferma qua nel suo racconto cinematografico. Qua si aggira l’impronta magistrale di Eastwood di cui parlavo poc’anzi. Del resto, è un film che tematicamente rientra nei canoni eastwoodiano di “riappacificare gli opposti “ (riguardatevi i film precedenti se la cosa non vi torna ).
Se le riprese con la steady cam delle partite sono tecnicamente bellissime, la vera maestria sta nel narrare la storia attraverso un’altra squadra, quella della scorta presidenziale, composta da neri e bianchi che si trovano improvvisamente a cooperare dopo che sotto De Klerk gli uni sono stati torturati a morte dagli altri. Dopo l’iniziale diffidenza, il cammino nella coppa del mondo degli Springboks sembra unire anche questi uomini, non solo quelli sugli spalti, in campo o in salotto a guardare la partita in tv.
Allo stadio, biglietti gratis anche per la governante nera della famiglia Pienaar ; a vegliare sulla sicurezza del presidente, bianchi e neri uniti nello scopo, e forse, anche amici, a poco a poco. Magistrale la sequenza del nero che non capisce niente di rugby, con il suo collega di scorta bianco che invece ne è tifoso sfegatato : “abbiamo pareggiato ! “ dice il secondo ; “ E ora che succede” chiede il primo ; “Tempi supplementari !” risponde il bianco ; “Non credo di farcela a reggere tutto questo “ chiosa il nero . Bellissima come sempre la colonna sonora di Eastwood figlio, che di nome fa Kyle ; e impossibile non chiudere con il mantra che Mandela recitava in carcere, che viene dritto dalle parole di William E.
Henley :” Non importa quanto sia stretta la porta, quanto piena di castighi la pergamena, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.” E questa potrebbe essere benissimo la risposta del Cavaliere Pallido a chi storcesse la bocca deluso di non aver di fronte un nuovo Gran Torino. Marco Cei