La mia vita era stata tutta una terra desolata, ma fino a quel giorno avevo avuto la possibilità di fermarmi, di fare penitenza e di venir perdonato. Soffocai le mie emozioni. Bisognava giocare fino in fondo. Il mio ruolo era quello dell'assassino di poliziotti, del cattivo, dell'incorreggibile". Edward Bunker Gran premio della giuria a Cannes 2009, vincitore di 9 César e in pole position per gli EFA (l’Oscar europeo) per la performance del suo straordinario protagonista, Il Profeta è tra le opere più celebrate di quest’anno.
Film carcerario molto duro che oltre a riscrivere ed attualizzare le regole del genere, conferma il grande talento del regista Jacques Audiard, autore dei già bellissimi “Sulle mie labbra” (2001) e “Tutti i battiti del mio cuore” (2005). Scritto dal regista in collaborazione con Thomas Bidegain, si basa su un soggetto originale di Abdel Raouf Dafri (già autore del dittico “Nemico pubblico n.1”) elaborato con uno stile nervoso e minimalista che resuscita, in due ore e mezza che corrono veloci come un treno, il vecchio polar francese, il gangster movie e il film carcerario in un romanzo di formazione intimista e in una puntuale opera sociale. Malik (Tahar Rahim, eccezionale scoperta) è un diciannovenne maghrebino che viene condannato a sei anni di carcere.
Non è ancora cominciato il suo calvario di giovane e fragile detenuto che César Luciani (un Niels Arestrup sempre strepitoso), il truce boss dei nazionalisti còrsi, gli commissiona un omicidio in cambio della loro protezione: “uccidi per noi e ti proteggeremo. Uccidi o sarai ucciso”. Non può che accettare. Inizia così una specie di iniziazione alla malavita. Malik diventa il loro schiavo, ma intanto, come gli aveva indicato questa sua prima vittima, impara a leggere e a scrivere, impara la matematica, il francese, il dialetto còrso e rispolvera l’arabo.
Dimostra una straordinaria capacità di adattamento, è uno che apprende in fretta, e stando al loro fianco assimilerà anche i trucchi, le strategie criminali e il modo di gestire il potere. Malik ha compreso la complessità del contesto e intelligentemente vi si adatta per poterla dominare. L’universo carcerario costringe al darwinismo, alla selezione naturale, alla legge del più forte. Impara col sangue certo, ma cresce fino a superare maestri e nemici. Come un profeta appunto che riesce a vedere prima, il protagonista comprende il corso delle cose e anticipa le mosse dominando e controllando gli eventi.
Persino con il fantasma dell’uomo sgozzato riesce a trovare una sorta di intesa: nonostante sia diventato un incubo ricorrente, Malik non ne è mai succube, e anzi lo trasforma in un sogno perfettamente gestibile. Arriva in carcere pressoché analfabeta, non ha una casa né una famiglia né un amico. In tasca solo una sigaretta e qualche franco. Ma quando uscirà per buona condotta, lo aspettano una donna e un bambino. Soldi e potere. Paradossalmente dunque trova la sua strada, il successo, la vita, attraverso e dentro la prigione.
A tal proposito lo stesso regista dice: «è un profeta anche perché porta la buona parola della speranza. Perché anche un uomo senza storia come lui, alla fine attraverso la paura e il dolore una storia se la scriverà». La scelta di un attore sconosciuto risulta pertanto esteticamente e narrativamente efficace: un volto senza storia perché ne possa scrivere una davanti ai nostri occhi. Spiega ancora Audiard: « mi ha colpito la sua faccia angelica, la sua purezza, il fatto che non abbia caratteristiche somatiche definite, che possa quindi sembrare ugualmente un portoghese, un arabo, uno spagnolo, un italiano.
Ho ripensato, guadandolo, al protagonista di “Teorema” di Pasolini. » Malvisto dai còrsi perché arabo e considerato un traditore da questi ultimi perché lavora per i còrsi, finirà (effettivamente ricordando il protagonista del film di Pasolini) per elevarsi al di sopra delle parti. Ma non c’è alcun alone di mitologia o di romanticismo in questa narrazione secca e potente, Audiard non cede a nessuna scorciatoia sociologica né a soluzioni politicamente corrette, tiene la macchina da presa incollata al suo protagonista seguendone il destino.
Una tesa e fenomenologica investigazione della realtà, un’analisi precisa e tagliente sulla realtà senza alcun lirismo. Il microcosmo del carcere riproduce quello sociale dominato dalla stessa logica dell’homo homini lupus, dalla stessa sopraffazione razziale, politica ed economica, dalle stessi leggi del profitto e quindi dalla lotta di classe (“un arabo ricco è un ricco. Un arabo povero è un arabo”). Lo spiega esattamente il regista durante una conferenza stampa: «in questo film la prigione è una metafora della Francia.
Con questo non voglio dire che essere liberi o carcerati è la stessa cosa. Voglio dire che in prigione si creano, esasperati, i meccanismi sociali, psicologici, etnici, religiosi, di classe che condizionano la nostra vita sociale». Ed è la forza di questa auto-rappresentazione a rilevare lo stato di salute di un cinema che cerca di comprendere ed analizzare il suo paese. Un paese alle prese con i fantasmi di un’integrazione realizzata solo a parole. La stessa cosa era successa più o meno due anni fa con “La classe” di Laurent Cantet, con la scuola al posto della prigione.
Entrambi ambienti tutt’altro che asettici, ma che permettono di riprodurre, come sotto vetro, i meccanismi della vita vera, ovviamente amplificata ed esasperata. Ancora Audiard: «so bene che è una storia difficile, ma è una storia in sintonia con quel che accade oggi, capace di parlare a chi non vuol chiudere gli occhi davanti alla realtà. Un po’ come è successo con “Gomorra” del vostro Garrone. Magnifico, l’ho amato molto». Figlio di uno dei più celebri sceneggiatori del cinema popolare francese, Audiard cala il suo film fin nelle radici del grande polar francese: Jean-Pierre Melville, Jaques Becker e José Giovanni, ma con un occhio rivolto a Brecht, a “L’odio” di Kassovitz, a “Fuga da Alcatraz” di Siegel, a Scorsese e alle pagine di Jean-Claude Izzo e dell’indimenticato Edward Bunker.
Ma ne riscrive le regole perché il suo film, come i migliori polizieschi degli ultimi anni, è capace di rivelare aspetti forse non troppo manifesti alla società civile, di raccontare le contraddizioni di un paese in cui la criminalità ha sempre più connotati etnici ed è divisa per clan. E lo fa attraverso le gesta eroiche di una persona comune (per questo l’articolo determinativo “Il” al posto dell’indeterminativo originale “Un Prophète” risulta uno stupido adattamento rigettato peraltro dallo stesso regista). Una magnifica ricognizione sui destini individuali che insegue un realismo (la messa in scena con luce naturale, il sonoro scabro e le riprese in macchina a mano che mimano la realtà) smentito e contrappuntato da inserti extra-diegetici: la musica classica inserita in scene che mirano al documentario, bagliori di immagini oniriche e omaggi al cinema muto attraverso l’uso del parziale oscuramento di alcune inquadrature ( “mano negra” come ama chiamare il regista). La completezza visiva e narrativa raggiunta da Audiard in questo film lo avvicina al capolavoro, ma è anche il risultato di un maniacale perfezionismo che lo ha portato a firmare un film praticamente ogni 4 anni…speriamo di non dover attendere così tanto per il prossimo. Laura Iannotta