Siamo nella Londra dell'Ottocento. La nostra eroina Alice (Mia Wasicowska) ha paura di non esser normale: da quando è piccola continua a fare sempre lo stesso sogno popolato da creature bizzarre come un coniglio bianco col panciotto, e come ogni adolescente che si rispetti, si sente diversa dal resto del mondo. La madre le organizza un ricevimento durante il quale dovrà ricevere la proposta di matrimonio di un ottimo partito. Ma proprio in quel momento le sue visioni si fanno più insistenti e sembran diventare realtà: il ticchettio di un orologio comincia ad ossessionarla e il coniglio presente nei suoi sogni compare improvvisamente per invitarla a seguirlo nella sua tana.
Così Alice fugge dietro a lui e precipita in un lungo buco alla fine del quale si ritrova in un paese chiamato “Sottomondo”, nel quale scopre di esser attesa da molto tempo come “salvatrice” di questa terra devastata dalla crudeltà della macrocefala Regina Rossa (Helena Bonham Carter) che ha esiliato la sorella buona, la Regina Bianca (Anne Hathaway). Aiutata dal Cappellaio Matto (Johnny Depp), dallo Stregatto e da tutta la schiera di strampalati personaggi che popolano questo mondo, Alice deve affrontare il Ciciarampa, un feroce drago con cui la tiranna esercita il suo potere. Quando si era diffusa la notizia che Tim Burton avrebbe ricreato il Paese delle Meraviglie, tutti i fan del regista hanno cominciato a trepidare immaginando il possibile risultato.
Quale occhio migliore, quale mente poteva spaziare in un mondo fantastico come quello di Alice? Chi altri poteva accompagnarla a varcare la soglia che separa il mondo di “sopra” da quello di “sotto” più di colui il quale nella sua esperienza artistica questa linea l'ha attraversata da sempre? Che le strade del regista più visionario e dark dell'era cinematografica moderna e quelle del geniale e rivoluzionario scrittore Lewis Carroll fossero destinate ad incrociarsi era quasi un'evidenza.
Si parlava, a buon diritto, di connubio perfetto: entrambi così simili nel congenito desiderio di rendere possibile l'impossibile, di trasformare i sogni e le fantasie in qualche cosa di reale e credibile, quant’anche al di fuori di qualsiasi ragione. Si aspettava il capolavoro. Ma così purtroppo non è stato. A dire il vero l'incipit poteva preparare il terreno ad aspettative e speranze per un epocale incontro: è notte, e la piccola Alice si aggira pallida per la casa in preda a strani incubi notturni che non la fanno dormire e le fan credere di esser pazza, così il padre la rassicura svelandole un segreto, “le persone migliori sono sempre fuori di testa” (salvo poi tornare dalla sua avventura, tredici anni dopo, e liquidare lo squilibrio della vecchia zia come semplice caso psichiatrico…).
Ma poi il film precipita a testa in giù come Alice nel burrone, e la delusione è cocente. Non che si tratti di un brutto film: ci sono delle cose sicuramente degne di lode, ma è un po’come tirare una coperta troppo corta, e poi in fin dei conti sono cose all’ordine del giorno di un compitino ben fatto se a farle è Tim Burton. Mettiamola così: è un peccato capitale per l’occasione mancata della sua vita artistica. Se Tim Burton si mette a fare "Alice in Wonderland" e non esce un capolavoro, o meglio, un nuovo "standard" per tramandare la favola meravigliosa e complessa di Carroll, è giusto essere delusi e sentirsi un po’traditi. Si sente la puzza di “commerciale” sparsa un po’ ovunque.
Ed è lecito pensare che il gusto della produzione Disney abbia pesato non poco sull'incontro di questi due grandi autori. Come ha affermato Todd McCarthy nella rivista Variety, si tratta di «un film Disney illustrato da Burton piuttosto che di un film di Burton prodotto dalla Disney!». Si avverte infatti molto di più la mano della scrittrice per bambini Linda Woolverton, che per la Disney aveva già sceneggiato “Il re leone” e “La bella e la bestia”, che quella del nostro filmaker (ne è la riprova anche la vittoria della Regina Bianca trattata come fosse la vittoria del Bene sul Male).
Dai libri originali “Alice nel Paese delle Meraviglie” e “Alice attraverso lo specchio” di Carroll il regista e la sceneggiatrice attingono rivisitando e rielaborando personaggi e situazioni in un'unica cornice narrativa, e trasformano la bambina dalla capricciosa curiosità di Lewis Carroll in un'adolescente problematica alle soglie di un matrimonio combinato. L’Alice di Burton è una diciannovenne emancipata che rifiuta le costrizione sociali della soffocante epoca vittoriana e sogna di diventare un capitano dell’industria alla conquista dei mercati cinesi, seguendo le aspirazioni colonialiste del padre.
Non c’è da stupirsi di questo, visto che nei suoi 150 anni di vita l'amatissima “Alice nel Paese delle meraviglie” è stata rivisitata e trasposta in diverse forme espressive almeno ogni generazione, a testimonianza di quanto questa meravigliosa e allegorica opera risulti introiettata e mitizzata. Svariate versioni cinematografiche, il cartone animato Disney del 1951, una canzone negli anni sessanta dei Jefferson Airplane dedicata al “White rabbit”, una produzione Bbc con musiche di Ravi Shankar, almeno un porno, una recente serie tv in cui Alice insegna arti marziali e persino un videogame in cui finisce in manicomio.
Per non parlare anche del Jabberwocky di “Attraverso lo specchio” (che in Burton diventa il minaccioso drago che la bionda paladina dovrà affrontare armata di spada) che ha ispirato un altro visionario, Terry Gilliam, nel misconosciuto “Jabberwoocky” del 1977. Ma sempre in nome di una sola fedeltà: la passione per la fantasia e l'immaginazione, il desiderio di ricreare mondi capovolti, di mettersi in contatto con la materia di cui son fatti i sogni.
La straordinarietà dei libri di Lewis Carroll risiedeva soprattutto nel loro essere un’avventura fuori di testa piena di pindariche associazioni di idee, popolata di creature tra il favoloso e l’inquietante, personaggi fatti di puro nonsense, taglienti come carte da gioco, enigmi ambulanti scaturiti dalla sua mente matematica. In “Alice in Wonderland” l'andamento psichedelicamente caotico invece è scartato a favore di una trama decisamente più canonica e logica: arrivata nel paese delle meraviglie Alice ha un destino già scritto, ha una missione pre-ordinata e un nemico da sconfiggere che finisce per sottrarla al suo compito originario di prendere coscienza dell'esistenza dell'irrazionale.
Purtroppo proprio questa struttura così “ordinata” è il limite principale del film. La volontà di dare un senso al viaggio di Alice lega Burton ad un canovaccio che appiattisce quasi completamente il caleidoscopico rompicapo carrolliano fatto di giochi di parole, di indovinelli stralunati, di invenzioni e paradossi linguistici che sostanzialmente servivano a mettere in discussione il senso della realtà ed in crisi il mito dell'ordine e della moralità inseguito dalla società vittoriana.
Il lisergico viaggio di “Alice nel Paese delle Meraviglie” si normalizza nell’intreccio, piuttosto standardizzato , di un fantasy novel che tanto ricorda “Le cronache di Narnia” o tanti altri fantasy del recente passato. Senza contare che l’interprete di Alice, Mia Wasikowska, è congelata da Burton in un pallido colorito insano e in un’espressione sempre un po’ accigliata che ne fanno un’Alice troppo poco incline alla meraviglia. E non va molto meglio con gli altri personaggi: l’eterea Anne Hataway restituisce una Regina Bianca deumanizzata nel suo cereo pallore e costretta in movenze assurde da ballerina zombie che, a lungo andare, rendono insopportabile anche lei.
Mentre il Cappellaio Matto di Johnny Depp (qui alla settima collaborazione con Burton, se contiamo anche quella, solo vocale, per “La sposa cadavere”) ricorda tanto lo "spiritello porcello" di “Beetle Juice”, ed è carico di gag e pomposità che culmineranno nella ridicola, stucchevole e quanto breve danza finale. Ritroviamo però la felice mano di Burton nel ritratto della sovrana cattiva (interpretata in modo straordinario dalla moglie Helena Bonham Carter) e nella messa in scena del suo mondo: deforme dalla nascita, la Regina Rossa tiranneggia per bisogno d’amore e per vendicare il torto di un’infanzia infelice in cui tutti le preferivano il bell’aspetto e i modi svenevoli della bianca sorellina.
Nei rossi violenti degli interni del castello reale annaffiato del sangue delle sue vittime, nel suo essere perennemente oppresso da scurissime nubi plumbee e protetto da un fossato di putride acque scure piene di teste mozzate, Burton ritrova per un attimo il gusto del gotico e dell'horror. Purtroppo non basta. E la scelta poi di aggiungere in post-produzione il 3D è lo scacco finale: assolutamente non necessario e totalmente fine a sé stesso. Un’invasione di effetti digitali capaci solo di far rimpiangere la semplicità e l'efficacia dei trucchi di “Edward mani di forbice” o la bellezza e la forza poetica dell'animazione stop-motion di “Nightmare before Christmas” o de “La sposa cadavere”.
Che senso può avere catturarci con sporadici trucchetti da parco giochi (gli insetti che volano davanti al naso dello spettatore) che per tutto il tempo non fanno altro che spingere solo a togliersi gli occhiali per verificare se hanno o meno smesso di funzionare, se non quello di cavalcare l’onda modaiola di questa tecnologia? Sembra difficile crederlo ma anche Tim Burton sbaglia. Ma se proviamo ad analizzare gli altri due film non propriamente alla sua altezza, “Il pianeta delle scimmie” e la “Fabbrica di cioccolato”, potremmo azzardare due diverse ipotesi e considerazioni: forse Burton sbaglia per troppo amore (sul set del primo infatti aveva incontrato la moglie Helena Bonham Carter, come in “Alice in Wonderland” la passione per Lewis Carroll) o forse che il suo genio si dispiega al meglio solo su storie originali? Laura Iannotta