Firenze – L’obbligo delle Stato accanto al dovere civile di ciascuno, per ricordare una delle grandi tragedie del Novecento. Alberto Monaci, presidente del Consiglio regionale, apre con il suo intervento la seduta solenne che celebra, in palazzo Panciatichi, il Giorno del Ricordo. Davanti alla platea di autorità il presidente ricorda che non esistono memorie minori, che il ricordo dovuto di quanto dovettero subire coloro che morirono o che dovettero lasciare le loro terre (si stima dalle 200 alle 300 mila persone) deve trovare tutti uniti se nel paese, ancora oggi, accadono atti vandalici nei confronti dei luoghi del ricordo: qualche settimana addietro della Shoah, oggi delle Foibe.
Monaci ricorda come bagarre politica e dibattito sulle responsabilità che hanno avuto fascismo e comunismo abbiano stravolto il significato proprio del Giorno del Ricordo; e rammenta pure come entrambe le ideologie abbiano tentato di negare responsabilità oggettive di un uso arbitrario e criminale del potere esercitato. Per questo oggi, ribadisce, in questa assemblea siamo uniti, senza colori politici, nel celebrare questa giornata. Una memoria, quella delle foibe, troppo spesso dimenticata o poco conosciuta, come dimostra un sondaggio commissionato da Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia.
Solo il 43% degli italiani sa cosa siano le foibe. E appena il 22% conosce il significato dell’Esodo giuliano-dalmata. Dati che il presidente definisce sconfortanti. Monaci cita il memorandum stilato dal Dipartimento di Stato Usa l’8 maggio del 1945, che non lascia dubbi su cosa stesse accadendo a Trieste, e una tra le tante storie di quei giorni: quella dell’ufficiale istriano Graziano Udovisi, che il 4 maggio 1945 dovette scegliere in un secondo se rimanere fermo ed essere falciato dalla mitragliatrice, oppure buttarsi nel baratro e morire cadendo.
La sua storia è quella di un miracolato, che salvò se stesso e un commilitone, riuscendo a risalire in superficie da trenta metri di profondità. A tutti quindi, il compito di tenere viva e comunicare ai più giovani la memoria di questo paese, l’Italia. Una memoria a volte dura, tragica, ma che ci ha permesso di uscire da quel secolo da molti definito buio. Celebrare il Giorno del Ricordo, per la vicepresidente della Giunta Stella Targetti, significa fare memoria della parabola drammatica dell’italianità adriatica, dentro un contesto europeo che ha superato derive nazionaliste e che oggi, in una crisi internazionale dalle vaste proporzioni, ha davanti nuove sfide da vincere.
Da qui il grande valore dei gesti simbolici, come la dichiarazione congiunta del 2011 tra Italia e Croazia, per essere vicini alle sanguinose vicende della storia, perdonare il male del passato e soprattutto guardare all’avvenire dei giovani. Ed è in questa prospettiva di futuro che sta la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo, un atto di giustizia che, dopo anni di silenzio, era dovuto alle vittime e ai loro familiari, ma che era anche necessario per scuotere quella opinione pubblica distaccata e spesso ostile, incapace di comprendere il dramma delle Foibe.
La vicepresidente ha quindi sottolineato l’urgenza di un consapevole investimento di memoria, sul piano culturale e civile, per riscattare tutti quei naufraghi della pace, vittime del Novecento, e per dare linfa alla democrazia e alla partecipazione. Alle Istituzioni il compito di continuare a lavorare per una cultura di rispetto per l’altro, in un percorso che oggi vede le minoranze in Europa fonte di arricchimento, grazie ai popoli che hanno investito energia e fiducia nei diritti sostanziali e materiali dello stato sociale.
La posta in gioco, per Stella Targetti, è la sopravvivenza del modello sociale europeo, per rendere omaggio a tutti coloro che hanno perso la vita e per fare dell’Europa una vera opportunità per i giovani. La seduta solenne del Giorno del Ricordo si è chiusa con l’intervento del giornalista e scrittore Enrico Nistri. Nistri ha compiuto un efficace excursus storico sulle modalità dell’esodo dei profughi giuliani e sul ruolo che la Toscana ha avuto in quel periodo. Dopo un primo esodo minore avvenuto nel 1943, ha ricordato Nistri, dopo il 10 febbraio 1947 iniziò il grande esodo: 201 mila persone censite, ma molti furono coloro che non vennero registrati, o che addirittura decisero di abbandonare l’Italia e l’Europa alla volta di America o Australia.
Molti profughi emigrarono nelle zone vicine, nel Triveneto o a Trieste, molti anche nelle Marche attraversando il mare, altri scelsero per motivi di lavoro le città del triangolo industriale. E subito dopo, optarono per la Toscana. La scelta della Toscana non era dettata da motivi economici, ha detto ancora Nistri, poiché c’era crisi e poco lavoro, ma per motivi ideali, perché per molti questa regione rappresentava un mito, anche perché Firenze è stata la capitale morale dell’interventismo.
I profughi vennero sistemati nelle città (a Firenze a Sant’Orsola), nelle colonie marine di Calambrone, Tirrenia, Forte dei Marmi, a Migliarino. Triste il caso di Laterina (Arezzo), dove sorgeva un campo di concentramento costruito durante la guerra che dopo il 1948 accolse 3000 ospiti giuliani, che furono costretti a vivere in condizioni difficilissime: sorvegliati a vista e senza poter uscire a meno di avere un lasciapassare, in condizioni di promiscuità e spesso facendo la fame. La Toscana, ha ricordato Nistri, seppe però nonostante la crisi accogliere e integrare a poco a poco i profughi giuliani così come fece con quelli provenienti dalla Grecia e dall’Africa, dando loro una casa e un lavoro.
E questo nonostante che essi rappresentassero il ricordo di una sconfitta che l’Italia voleva dimenticare. E tanti sono, a loro volta, i profughi che hanno contribuito in modo fattivo alla crescita economica e culturale della Toscana. Nomi noti, uno su tutti don Luigi Stefani, ma anche, ha concluso Nistri, tanti “piccoli”, come le operaie della manifattura tabacchi provenienti da Pola che furono reimpiegate a Firenze.