Vecchio Clint, quanta acqua sotto i ponti è passata da quando facevi il pistolero per Sergio Leone….verrebbe da dire sotto i ponti di Madison County, ma sarebbe una facile ironia. Quasi trenta film all’attivo. Gli inizi dietro la macchina da presa timidi, irrisolti, ancora irretito dai generi in cui ti eri trovato a prestare la faccia come interprete. La Gloria, il riconoscimento dei meriti, solo più tardi, dagli Spietati in poi, che ha segnato la tua ascesa come uno dei più grandi registi viventi dell’America e dell’intero globo terrestre.
Quello che forse colpisce di più è la dicotomia fra un’ideologia reazionaria, destrorsa, di cui ti eri fatto interprete nelle pellicole di Siegel e pure in politica, nella tua parentesi di sindaco; e quella straordinaria sensibilità volta a catturare le contraddizioni e le fallacità dell’umano, le sue debolezze. Ritrarre il dolore è una delle cose che ti son sempre venute meglio e che ci ha stupito sempre di più. Il Texano dagli occhi di ghiaccio ha un cuore, e una testa per pensare, e parole e mezzi per esprimerle.
Ed ecco gli ultimi grandi successi, Gran Torino, Changeling, Mystic River, Space Cowboys, Million Dollar Baby e il dittico Letters From Iwo Jima – Flags of Our Fathers. Poi arriviamo a questo Hereafter. L’aldilà. E qui il discorso si fa complesso. Non è un film riuscito. Peccato. A tratti persino un po’ noioso. Plumbeo. La sceneggiatura non funziona, rimanda l’incrocio dei tre destini collegati fino quasi alla fine, per poi forzarlo nei modi in cui avviene.
La colpa, ne siam certi, è della sceneggiatura di Peter Morgan, più a suo agio coi film politici (The Queen e Frost-Nixon il duello ) che obbliga il vecchio Clint a narrazioni parallele alla Arringa, che non son certo il suo forte. Qualcosa di perde, anzi, tanto. Si spreca un‘occasione. Matt Damon è George Logan, un medium che rifiuta il suo dono, quello di contattare i defunti, perché vuole avere una vita normale. Cecile de France, nonostante il cognome di nazionalità belga, è Marie Lelay, giornalista francese che sopravvive allo Tsunami (rozza ma efficace la rappresentazione della fatalità nei primi minuti del film) e si batte da allora per capire cosa le è successo, cosa ha visto in quei momenti di sospensione fra la vita e la morte.
Marcus è un ragazzino inglese che perde il gemello, con cui ha una ovvia relazione simbiotica, e inizia una personale odissea per ricontattarlo, fra medium ciarlatani e famiglie adottive che non lo capiscono.(Che il ragazzino, sventurato, ha pure una madre tossicodipendente ). George non vuole vedere quello che Marie vuole capire e che Marcus vuole invece sentire di nuovo. Non sveliamo molto altro della trama, ma concentriamoci sugli sprazzi di magnifico che questo film discontinuo e irrisolto ci offre. Innanzitutto, la tenerezza del finale, dove l’uomo che non vuole vedere la morte si concede una speranza per il futuro (sentimentale) quasi adolescenziale, il desiderio di un bacio con una semisconosciuta, di un rapporto autentico. Piace l’ironia del caleidoscopio di medium che il ragazzino inglese contatta per tornare in contatto col fratello, giustamente ciarlatani e menzogneri.
Piace la visione filologicamente corretta dell’Aldilà che Eastwood mette in scena dei contatti extrasensoriali del medium Lonegan. Piace il sarcasmo che abbatte ogni dubbio di cattolicesimo oltranzista, nella scena in cui le ceneri del gemello Jason vengono restituite frettolosamente alla famigliola di Marcus perché ci dev’essere subito, a ruota, un altro funerale. Ma soprattutto piace il messaggio poetico di questo ottantenne, che, inevitabilmente, inizia a interrogarsi sul mistero più grande, la Morte, scoprendo con noi che l’unico Aldilà che ci è ignoto e ci spaventa è …l’Aldiqua, se passate il gioco di parole.
La paura di vivere ci blocca, non quella della morte. Conciliare questi due aspetti sembra essere il leitmotiv del film di Clint. Ci può essere sempre una svolta, una madre da riabbracciare, una nuova “pelle” lavorativa da indossare, una mezza sconosciuta di cui innamorarsi in un bar londinese. Vivete, voi che avete ancora il tempo davanti per farlo, sembra il consiglio dell’attore con meno espressioni del mondo, a cui perdoniamo questo film tecnicamente non riuscito, perché anche nelle sue pagine meno riuscite di regista, riesce sempre a dire qualcosa che non sentivamo più da molto tempo. Piccola segnalazione : quasi irriconoscibile nel film c’è pure la splendida Bryce Dallas Howard.
Che forse è ora di smettere di definire solo come la figlia di Rickie Cunningham. Marco Cei