FIRENZE- Amarezza e assurdità sono i cardini di Non si sa come, complessa pièce dell’ultima fase di Luigi Pirandello, per la regia di Federico Tiezzi, in scena fino a domenica al Teatro della Pergola. Che si tratti di uno spettacolo complesso, lo si intuisce dall’affascinante prologo, ideato dal regista, in cui le due coppie di protagonisti suonano insieme il violino, indossando maschere da alligatore, immersi in una scena semibuia, dalla scenografia minimalista apparentabile alle atmosfere del teatro giapponese di tradizione.
Chiuso questo breve ma intenso prologo, la pièce si apre con l’improvvisa pazzia di Romeo Daddi che, dopo aver ceduto alla passione per Ginevra, moglie dell’amico Giorgio Vanzi, comprende come sia estremamente facile commettere colpe semplicemente lasciandosi condurre dall’istinto, al di fuori della coscienza razionale. Per questo, il colpevole non è tale, ma anzi esente da responsabilità. “Non si sa come”, appunto, si compiono certe azioni. In leggero anticipo su Sartre e gli esistenzialisti francesi, Pirandello solleva la delicata questione delle conseguenze che l’agire umano si porta dietro, conseguenze di fronte alle quali l’uomo si ritrova drammaticamente solo.
Evitando il campo filosofico, il drammaturgo siciliano ne fa una questione psicologica, trasformando di fatto lo spettacolo in una sorta “di seduta di gruppo”, dove il confronto fra le due coppie amiche, cui si aggiunge il “cicisbeo” Nicola Respi, apre inconsueti squarci sull’esistenza. Per la tranquillità della sua coscienza, il Daddi ha assoluta necessità di credere che la logica dell’istinto incontrollabile, che porta a commettere azioni anche nefande, valga anche per tutti gli altri individui.
Si innesca così una spirale di sospetti, confessioni lasciate a metà, allusioni, dicerie, nel più puro stile pirandelliano, dove emergono tradimenti, desideri repressi, e persino omicidi mai confessati prima. Eppure, non sapendo come siano stati commessi, vi è la tetra certezza che i colpevoli siano esenti da responsabilità. E Sandro Lombardi, porta sulla scena questo tormento esistenziale dando vita a un Romeo Vanzi impegnato nell’ostinata ricerca di un’impossibile verità, cui fa da contr’altare il fermo proposito di rimuovere il passato.
Un personaggio complesso, mai banale, che Lombardi rende con pacatezza, come se lui stesso osservasse con curiosità il viaggio interiore di Vanzi. La gelosia di Romeo per la tranquilla moglie Bice, è la molla che fa scattare questo duro confronto, a tratti paradossale e persino assurdo. Con splendido afflato poetico, Pirandello insinua l’idea che l’amore sia essenzialmente infelicità, tuttavia quasi parossisticamente ricercata dal genere umano, quale necessario divertissement contro un altrimenti noiosa esistenza.
Una noia che emerge sottilmente dalle stanche pose attoriali, in particolare di Elena Ghiaurov e Pia Lanciotti, algide e passionali insieme, scrigni di bellezza non convenzionale, sfuggenti nei loro lunghi abiti quasi sirenici. Particolarmente suggestiva ed efficace, la scena delle due che, sedute ai capi opposti del grande tavolo, si fronteggiano mute indossando maschere da alligatore. Un tocco registico concettuale, una sorta di fermo-immagine teatrale che sottintende l’ipocrisia borghese. A istillare ulteriori dubbi, lo scioccante finale, la cui scena madre avviene a sipario quasi chiuso, e che suggerisce una repressa omosessualità fra Giorgio e Romeo.
Una delle pièce concettualmente più crude e amare del drammaturgo agrigentino, che da un lato, attraverso le mitomanie di Romeo Daddi, demolisce la facciata conformista della borghesia italiana, ne mostra le demenzialità, e dall’altro ne auspica il profondo rinnovamento, un ritorno all’ordine che passi attraverso il nudo schiumare delle passioni, ridotte a sé stesse. L’uomo è istinto, di libidine, certo, ma anche di giustizia, seppur in maniera parziale e scombinata. Ecco spiegato il violino, delicata metafora del momentaneo oscurarsi della razionalità umana, che segue percorsi imprevedibili al pari di una tormentata fuga musicale. Un testo difficile da catalogare, a metà fra commedia e tragedia, che getta una luce ambigua sui paradossi dell’agire umano, sospeso fra rimorsi di coscienza e ipocrisia.
Nella disperata ricerca della colpa e della condanna, che un individuo rispettoso di sé stesso sente necessaria, nasce inevitabile il confronto con l’Italia contemporanea, Paese di Bengodi dove la legge è una burletta che non trova se non paradossali applicazioni fuori da ogni logica etica, un Paese che sta pagando a carissimo prezzo l’incoscienza di una classe politica arrivata al potere “non si sa come”. Uno spettacolo elegante com’è d’abitudine della coppia Lombardi/Tiezzi, interpretato con misura dagli attori, con Ghiaurov e Lanciotti perfettamente a loro agio nei sontuosi abiti di dame della buona società degli anni Trenta (anche se la pièce non ha epoca), con quell’aria ora annoiata, ora incredula, ora divertita, che costituisce una continua fonte d’indecisione per l’uomo che la fronteggia. L’elegante regia offre momenti di magistrale freddezza, un po’ come nelle migliori atmosfere cinematografiche di Mauro Bolognini, assecondando l’introspezione psicologica ideata da Pirandello.
La scenografia passa dal minimalismo della prima parte - dove lo sfondo asettico avvolge la dura introspezione psicologica -, all’eleganza da salotto borghese della seconda, con una sala rossa di gusto neoclassico. Uno spettacolo dai profondi significati psicologici, affrontato con notevole maturità artistica, che ha meritati i calorosi applausi del numeroso pubblico in sala. di Niccolò Lucarelli