A distanza di sei anni da K-19, Kathryn Bigelow torna a parlare di guerra e di dipendenza. Candidato a nove premi oscar tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista, The Hurt Locker racconta dei 40 giorni al fronte in Irak di un'unità speciale di artificieri dell'esercito statunitense col compito di disinnescare bombe piazzate dalla contro-guerriglia irachena. Quando il capo-squadra morirà in un'esplosione, lasciando quel che resta di lui in una “cassetta del dolore” da commemorare, lo sostituirà il soldato William James, un uomo che ha disinnescato quasi novecento bombe e sembra non conoscere la paura della morte.
Come una corsa contro il tempo, un conto alla rovescia per tornare a casa e salvarsi la vita, il racconto procede teso e ansiogeno come la camminata dell'artificiere dentro la tuta che apre il film. L'ultima fatica della Bigelow è un film tesissimo dal punto di vista emotivo, spiazzante e dalla suspence costante. Il montaggio è serratissimo, gli zoom scomposti, le inquadrature traballanti e la macchina da presa perennemente in movimento per sottolineare lo stato di ansia e di eccitazione che i soldati vivono sul fronte, dove la morte può coglierli in qualsiasi istante.
Esemplare e sapiente sotto il profilo estetico, il film raggiunge un tocco quasi documentaristico grazie all'utilizzo del super 16 che lo avvicina alla libertà e al dinamismo delle produzioni a basso budget. Allo stesso modo, la scelta di utilizzare un cast di quasi sconosciuti (tranne Ralph Fiennes e Guy Pierce, ai quali però la regista affida ruoli brevi secondari) ci danno il senso di un opera che punta dritta al cuore dello spettatore. Come racconta la stessa regista, il film nasce dai reportage iracheni del giornalista Marc Boal (già coautore del film di Haggis “Nella valle di Elah”): «quando Boal è tornato a casa dopo il periodo passato in Iraq con gli sminatori e mi ha raccontato di come sia il loro quotidiano, la vita in gioco anche quattro, cinque volte al giorno, uno dei lavori più pericolosi al mondo, ho deciso che quello era il mio film, che la psicologia di quegli uomini mi interessava.
Sono volontari. Che tornano anche dopo aver esaurito la ferma. È la paura che genera assuefazione, la seduzione del combattimento e della morte, la necessità del nemico che è dappertutto perché non è da nessuna parte. Lo spiega anche Chris Hedges, nel libro “War is a force that gives us meaning” e vale a Sarajevo, come a Kabul e a Bagdad». Il film infatti si apre con una citazione di Hedges «La furia della battaglia provoca spesso una dipendenza letale […] La guerra è una droga», spiega ancora la Bigelow: «ho raccontato una storia vera.
Il giornalismo non ha fatto il suo dovere sull'Iraq: 4.000 morti e abbiamo visto solo quattro immagini delle loro tombe, è il dato del New York Times. E la domanda di verità è sempre più forte in America. Io volevo che la gente si mettesse nei panni dei soldati al fronte. Che provasse quello che provano loro. Psicosi e dipendenze comprese. Ho voluto realizzare questo film raccontando l'esperienza dei soldati dal loro punto di vista, in modo che lo spettatore possa sentire quello che sentono, dal sudore al sole impietoso che subiscono.
Questi uomini sono in uno stato costante di tensione e paranoia, in un terreno in cui la sicurezza è impossibile». Kathryn Bigelow ci proietta proprio dentro questo incubo: la sabbia che si impregna di sangue, il caldo opprimente di un sole a picco che incendia i pensieri, la tensione che genera l'adrenalina, l'eccitazione della paura, il superomismo che diviene alienazione. La guerra è droga pesante che si incolla addosso togliendo umanità, è il “luogo ufficiale” della produzione di adrenalina pura di massa a livello industriale.
E i soldati non sono eroi, ma adepti del dio testosterone che godono nel tirare fuori a mani nude la bomba nascosta sotto terra. Il protagonista principale non può più fare a meno della guerra, come i vampiri dell'immortale “Il buio si avvicina” o i surfisti di “Point break" o i biker e i serial killer di “Strange days”, è un personaggio “addicted”. Costretti a giocarsi la pelle in pochi secondi, molti soldati si trasformano in ossessi del rischio, in drogati dell'adrenalina, schiavi del pericolo e dell'emozione forte a tutti i costi.
Sempre alla ricerca dei punti di rottura, la Bigelow è una regista sovente sottovalutata. Nata come pittrice e fotografa concettuale a cavallo tra gli anni '70 e '80 nel circolo di Susan Sontag, Robert Mapplethorpe, Richard Serra e Philip Glass, è un'artista controversa, che spesso è stata oggetto di critica sul fatto se fosse regista di sinistra o di destra: da una parte poetessa di categorie poco integrabili, dall'altra esaltatrice di azione e virilità dallo stile sincopato e tachicardico.
Nella fattispecie questo film è stato accusato dalla quasi totalità della critica americana di essere reazionario e di propaganda. A voi la risposta dopo la visione, ma non si può non riflettere sul messaggio doloroso e potente che innesca: la guerra è una droga micidiale con cui sballare ma anche, paradossalmente, un porto sicuro presso cui tornare. Con uno sguardo impietoso e feroce la regista non si limita a condannare ogni conflitto armato come male assoluto, ma ci fa toccare con mano come a questo inferno ci si può assuefare fino a non riuscire più a starne senza...la guerra come vita dunque.
Pensiamo al soldato James ad esempio che è nel suo mondo solo quando è alle prese con un padre di famiglia imbottito di tritolo a orologeria o quando è circondato da mille fili di esplosivi, ma che di fronte al più rassicurante degli scenari, lo scaffale pieno di cereali per la colazione del supermercato, non riesce a focalizzare, a scegliere, è come se fosse una terra straniera estranea alla sua vita. Questo il messaggio angosciosamente destabilizzante proprio per la sua lucida obiettività. Per conoscere i cinema di Firenze dove The Hurtlockers è proiettato e, più in generale, la programmazione dei cinema a Firenze, clicca qui. di Laura Iannotta