È terminata domenica la tre giorni pistoiese della coppia Zingaretti-De Francovich, che al Teatro Manzoni ha riscosso grande successo di pubblico con La torre d’avorio, complessa e controversa pièce di Ronald Harwood che ripercorre l’inchiesta a carico del celebre direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler (De Francovich), accusato di connivenza con la dittatura nazista. Incaricato dell’indagine, è il maggiore Steve Arnold (Zingaretti), del contingente americano d’occupazione a Berlino, burbero e sinceramente avverso alla barbarie hitleriana, verso cui nutre un odio profondo, e i responsabili della quale è fermamente deciso a punire. Negli interrogatori, prima di un componente dell’orchestra, Helmut Rode (Gianluigi Fogacci), poi dello stesso Furtwängler, emerge il duro confronto fra la realtà dei vincitori e la realtà degli sconfitti.
Zingaretti (che firma anche la regia), e De Francovich, danno vita a due personaggi diametralmente opposti, militare sbrigativo ma poco dotto il primo, artista e gran signore (ma colluso con il nazismo) l’altro, e i silenzi che si scambiano comunicano al meglio la tensione emotiva che interrogatori del genere dovevano sprigionare. Sullo sfondo, le sinfonie di Beethoven, che Furtwängler ha diretto per tanti anni, e la cui bellezza, a distanza di secoli, sembra essere impassibile davanti alle tragedie dell’umanità.
Una bella prova corale di tutta la troupe, che riesce a comunicare al pubblico le tragedie personali dei tanti che hanno vissuto la realtà della Germania nazista, e che cercano disperatamente di rifarsi una vita, anche solo dimenticando il passato. Come scrisse Malaparte, “il proprio dell’uomo non è vivere libero in libertà, ma libero in una prigione”. Un’affermazione lapidaria che presuppone coraggio e integrità morali, nonché, in qualche caso, disposizione al sacrificio. E questa sembra essere la filosofia di Furtwängler, che si dichiara ben lontano dal condividere l’ideologia nazista, e nonostante questo è rimasto in Germania anche dopo il marzo del ’33, per poter opporre una resistenza, più morale che fattiva, nei confronti del regime, avendo come unica arma la musica, autentica forma d’arte che ha il potere di far sognare gli uomini, e infondere loro, in nome della bellezza e dell’armonia, quel coraggio che da soli non si riesce ad avere.
Spiegazioni che poco convincono Arnold, desideroso di inchiodare il maestro alle sue responsabilità, anche se non sembrano esserci prove schiaccianti a suo carico. Della sua innocenza sono convinti anche, oltre al tenente Wills (Paolo Briguglia), anche la segretaria del maggiore, Emmi Straube (Caterina Gramaglia), e Tamara Sachs (Francesca Ciocchetti), vedova di un pianista ebreo che Furtwängler avrebbe aiutato ad espatriare in Francia. La situazione appare quindi contraddittoria, e l’accertamento della verità, quindi, appare più difficile di quanto non sembri a prima vista.
Nessuno è completamente immune da colpe, nemmeno il maggiore Arnold, il cui zelo punitivo sembra non voler tener conto delle possibili attenuanti di Furtwängler. Una pièce che affronta il difficile e scomodo argomento delle responsabilità da un punto di vista opposto rispetto all’altro testo chiave sull’argomento, ovvero quell’Istruttoria, del drammaturgo tedesco Peter Weiss, scritto nel 1965, e riferito al processo contro un gruppo di SS e di funzionari di Auschwitz, che si tenne a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965.
Harwood infatti considera la posizione delle centinaia di migliaia di cittadini tedeschi che, forse pur non condividendo completamente la dittatura hitleriana, non ebbero la forza di opporvisi, vuoi per paura, vuoi perché allinearsi avrebbe potuto portare qualche beneficio. Se quindi, da una parte, stanno i criminali di guerra, accusati di genocidio, dall’altra si trovano quelli che Umberto Eco chiamerebbe “i semplici”, uomini non cattivi di per sé, ma comunque abbastanza meschini da non esporsi personalmente contro le ingiustizie e l’oppressione, chiusi nelle loro personali “torri d’avorio”, dove si sentono protetti dalla loro routine borghese.
La problematica era già stata sollevata da Primo Levi, sia nei suoi testi dal lager, sia nei suoi interventi pubblici; tuttavia, è la prima volta che se ne parla a teatro, ed è opportuno che la pièce di Harwood giunga a Pistoia nei giorni in cui si ricordano i 75 anni dalla Notte dei cristalli. Da parte sua, Primo Levi non se la sentì di assolvere la popolazione connivente. Ma dai racconti di Furtwängler e Rode, si intravede un’ennesima colpa della dittatura: quella di aver sopraffatto e condannato ai rimorsi, uomini troppo deboli per opporsi a un potere più grande di loro. Anche questi sono aspetti non trascurabili di quella che è stata la tragedia della dittatura nazista, la quale ha inflitte ferite che, a distanza di quasi settanta anni dalla sua fine, ancora non sono completamente chiuse. Alla fine, calorosi applausi per una pièce coraggiosa, interpretata e diretta con grande maturità artistica. Niccolò Lucarelli