PRATO- Grande successo di pubblico, al Teatro Metastasio, per il secondo debutto (dopo Spoleto in luglio), de Il ritorno a casa, pièce di Harold Pinter, allestita per l’occasione dal tedesco Peter Stein, la cui regia improntata a un’elegante sobrietà ha espressa al meglio la maturità di uno dei lavori più belli del compianto drammaturgo inglese. Teddy, professore di filosofia emigrato negli Stati Uniti, torna a casa in visita al padre ai fratelli che non vede da diversi anni, da quando ha lasciati gli squallidi sobborghi londinesi in cerca di una vita migliore.
Invece i suoi due fratelli, Lenny e Joey, sono ancora in casa con il padre Max e lo zio Sam, a sbarcare il lunario in futili, equivoche occupazioni, a volte oltre il limite della legalità. La visita di Teddy, che arriva con la moglie Ruth (nei confronti della quale mai cade il sospetto familiare che sia una prostituta), acuisce gli impietosi rancori fra Max e i figli, e fra Max e il fratello Sam, e il ricordo della moglie e madre scomparsa rievoca soltanto impotente nostalgia e un confuso, commovente, senso di poesia.
Una pièce che riflette sullo squallore della vita familiare anglosassone (ma non solo), sullo scontro generazionale dovuto non più a motivi d’ideale bensì a non chiari rancori, a frustrazioni personali, alla noia quotidiana. Una rivolta dei figli contro i padri che emerge nell’atteggiamento spesso arrogante dei primi verso il secondo, e che a differenza di quella dostoevskijana dei Karamazov, non sembra prevedere né la redenzione né una morale. In ogni dialogo è facile cogliere nell’aria l’odore del whisky da poco prezzo, della moquette coperta di polvere come del cibo scadente, consueti in quel mondo grottesco pervaso di perversioni, violenza, attrazione-repulsione per le donne, che sembra essere diventata la famiglia in quella metà degli anni Sessanta. È importante considerare come Pinter scriva Il ritorno a casa nel 1964, un anno fondamentale per le ultime vestigia dell’Inghilterra vittoriana, spazzate via dalla nascente cultura pop, che proprio quell’anno vede la consacrazione dei Beatles e dei Rolling Stones, portavoce di un nuovo modo di essere giovani, che Alessandro Averone, nei panni dello scombinato Lenny, esprime al meglio portando sul palco un’esuberanza leggermente ventata di violenza, e quell’equivocità che si sarebbe potuta riscontrare in un tirapiedi di Ronnie Craig, boss dell’East End negli anni Sessanta, e faccia sporca della rivoluzione pop, che univa il fascino del vivere sopra le righe e contro la legge, a quello della notorietà e del glamour.
La frustrazione più profonda che sembra emergere dai personaggi di Pinter è proprio quella di non essere riusciti ad emergere dalla mediocrità, e a poco valgono le velleitarietà pugilistiche di Joey, impersonato da un Rosario Lisma impacciato quanto basta per dar vita a un giovane scioperato e suo malgrado sognatore. In mezzo a tanto squallore - che la statura drammaturgia di Pinter riesce persino a far apparire simpatico -, con perfetta, anglosassone sardonicità, ecco che sul palco si parla di filosofia, e la pièce assume quella profondità esistenziale che quasi illude di poter riscattare vite spese tanto male; all’impacciato Teddy viene stranamente spontaneo chiedersi dove si collochino queste stesse vite nell’ambito della complessità dell’universo, ovvero se stiano agendo sulle cose, oppure all’interno di esse.
Evidente il richiamo al filosofo e matematico tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz e alla sua Teoria delle Monadi o Monadologia, secondo la quale, in estrema sintesi, ogni monade vive in un mondo suo e soltanto suo; ma ognuna di esse è nello stesso tempo specchio vivente dell’universo, in quanto riflette immagini che non vengono dall’esterno ma che essa stessa proietta come centro di forza. Dal diverso grado di coscienza che ogni monade ha in sé, dipende la sua capacità di percepire l’universo, e influirvi. Ma il teatro di Pinter va oltre la filosofia, affrontando con irreprensibile aplomb britannico il discorso sul teatro dell’assurdo già avviato da Ionesco nel decennio precedente, e che adesso il drammaturgo inglese applica al concetto del libero arbitrio.
Si sono lette tante considerazioni di tipo moralistico, avanzate su questa matura pièce di Pinter, in tanti hanno storto il naso davanti all’ambigua e infelice Ruth, la cui libertà di diventare prostituta è soltanto un espediente drammaturgico per riflettere sulla difficoltà nel trovare l’equilibrio fra agire dentro e sulle cose. È veramente la voglia di libertà a spingerla sulla strada della prostituzione? robabilmente, già nel 1964, Pinter aveva intravisti i limiti dell’appena nata esperienza femminista, e con squisito scetticismo d’Albione previde ben pochi cambiamenti nella condizione della donna.
Il disprezzo nel quale è tenuta Ruth, è tragico, emblematico specchio dell’ancora purtroppo attuale società maschilista, per la quale la donna è un oggetto da sfruttare, come dimostra l’impietoso finale. Da parte sua, Arianna Scommegna dà vita a un personaggio affascinante, enigmatico e inquietante, amante del lusso un po’ Daisy Fay-Buchanan, un po’ Bonnie Parker, che però si perde in un gioco più grande di lei, piccola monade nell’infinito universo. Un allestimento di grande qualità, la cui accuratezza formale e concettuale richiama da vicino l’altrettanto splendida regia di Guido De Monticelli, alle prese con questa pièce nel lontano 1999 al Teatro Quirino di Roma. Niccolò Lucarelli