PISTOIA- Convincente regia di Marco Bellocchio che la Teatro Manzoni ha presentato in prima nazionale il suo allestimento di Zio Vanja, ironica e insieme complessa pièce dalla profonda indagine sociale, come lo è, del resto, gran parte della produzione cechoviana. Anche qui, attraverso il personaggio del titolo, il drammaturgo di Taganrog riflette sulle contraddizioni della Russia della seconda metà dell’Ottocento, sospesa fra una vagheggiata volontà di agire, e un’inerzia venata di fatalismo.
Quello russo è un popolo teatrale, forse non nel senso più alto del termine, ma sicuramente nel senso paradossale della commedia tragica. Brilla di un’eleganza non propria, si strugge di pietà e l’istante successivo si abbrutisce in collere malvagie e grottesche, è incline al fatalismo e alle nostalgie. È questo aspetto che Bellocchio riesce a far emergere nel suo allestimento, ottimamente sorretto dalla coppia Rubini-Placido cui si affianca un buon Pier Giorgio Bellocchio. Un vecchio professore (Serebriakov/Placido), sposato in seconde nozze con una donna molto giovane, passa l’estate nella tenuta del cognato (Vanja/Rubini), del quale aveva a suo tempo sposata la sorella.
Con i suoi ritmi cittadini e la sua ipocondria sconvolge la tranquillità campagnola della famiglia, composta anche dall’anziana suocera, una governante, un fedele servitore, e la figlia Sonja, avita dalla prima moglie. Inevitabile, esplode l’antipatia fra i due uomini, con Vanja che rimprovera al professore di essere un parassita della società. La goccia che fa traboccare il vaso, sarà la proposta di Serebriakov di vendere la tenuta, e con il ricavato, vivere agevolmente di rendita in una grande città.
L’ira di Vanja esplode, in modo drammatico e grottesco insieme, e manderà all’aria i piani del professore, che si trasferirà con la moglie a Kharkov. Tutto resta come prima, nella tenuta si riprende la vecchia vita, con Vanja intento nell’amministrazione, i cui frutti servono per passare il mensile al professore. Coscienza critica della Russia dell’epoca, è appunto lo zio Vanja, personaggio intellettualmente complesso, forse anche un po’ ridicolo, e consumato da quella malinconia parigina tanto di moda nell’aristocrazia russa dell’epoca.
Antieroe di un’esistenza di atti mancati, scopre di aver sprecati i suoi anni migliori a lavorare nella tenuta di famiglia senza mai uscirne, e adesso si ritrova quasi cinquantenne senza prospettive. A lui fa da contrappunto il dottor Astrov, che incarna l’altra faccia di quella coscienza russa, rabbiosa e combattiva, ma consumata dalla disperazione, dopo tanti anni trascorsi a contatto con le sofferenze quotidiane dei ceti più umili - gli operai malati di una fabbrica nella fattispecie -, e che adesso cerca rifugio nell’alcool e nella contemplazione e salvaguardia della natura.
Preservare i boschi, significa lasciare alle generazioni future un mondo bello, armonioso, e sano. Tuttavia, anche il suo eroico sforzo, poco può contro la volgarità, l’ignoranza, la malvagità. Ma a frenare il progresso del popolo russo, a costituirne la maggior debolezza, sembra essere quell’inerzia, dovuta al fatalismo, all’ingenuità, alla sfiducia, a un eccessivo amore per lo status quo, che caratterizzava in particolare i ceti medio-alti. A questi, Cechov rimprovera la mancanza di attività, e una vita di parassitismo sulle spalle delle masse operaie e contadine.
Gli intellettuali, come è appunto il caso del professor Serebriakov, non producono niente di originale dal punto di vista del pensiero, ma si limitano alla pedanteria accademica, vivendo di rendita sul lavoro altrui, o di stipendi non meritati. A lasciare sconcertati, oltre a ciò, è come riescano a farsi amare da donne molto più giovani di loro, come è appunto il caso di Serebriakov, che suscita la poco velata invidia di Vanja e di Astrov. A margine della storia, ma nemmeno poi tanto, Cechov affronta anche la problematica dell’amore, che sempre gli è congeniale, e ci mostra la profonda, anche se all’apparenza improbabile, relazione che lega la giovane Elena a Serebriakov, così come il vano struggimento di Sonja per il dottor Astrov, e quello di lui per Elena.
L’amore è strano, così come lo è la vita in generale, sembra dirci Cechov, ed esplode nelle situazioni meno scontate. Sia Rubini sia Pier Giorgio Bellocchio, offrono un’interpretazione artisticamente matura, intrisa di amarezza e di nostalgia per il passato - che emerge con la delicatezza di un adagio schubertiano -, e si muovono a loro agio nelle vesti di due personaggi bizzarramente poetici. Michele Placido dimostra di essersi perfettamente calato nella personalità dell’anziano e irascibile professore, eroe negativo della commedia, ma che, proprio per questo, amaramente trionfa.
Da parte loro, Lydia Liberman (Elena), e Anna Della Rosa (Sonja), offrono entrambe un’interpretazione tecnicamente valida, ma non completamente convincente dal punto di vista del pathos, con troppe esitazioni e scivolamenti nell’accademismo, che tolgono parte della profondità poetica femminile dei loro personaggi, dettaglio cui invece Cechov si è sempre dimostrato attento a costruire. Ma il teatro, quando è ben fatto, sa essere universale e attuale. La rabbia di Astrov contro la deforestazione, è anche un amaro riferimento all’Italia di oggi, quotidianamente aggredita dal cemento della speculazione edilizia, dall’incuria e dall’inquinamento.
Il dissesto idrogeologico e la rovina dei siti archeologici stanno smantellando palmo a palmo quello che era “il giardino Italia”. Inoltre, difficile non cogliere negli attacchi di Vanja contro Serebriakov, un collegamento con la gerontocrazia intellettuale e amministrativa, la cui inettitudine e inamovibilità ingessano il Paese. Molto bella la scenografia, che riproduce gli interni di una casa padronale di campagna, con le pareti di legno - il cui profumo si spinge fino in platea -, e un arredamento che richiama in modo discreto l’eleganza borghese di fine Ottocento. Alla chiusura del sipario, meritati applausi per uno spettacolo maturo e interessante, con la regia di Bellocchio che indaga la realtà dell’Ottocento, con uno sguardo per quella contemporanea. Niccolò Lucarelli