di Montecristo Dopo la dichiarazione rilasciata la settimana scorsa alla stampa con cui il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha annunciato di candadarsi alle primarie del Partito Democratico in vista delle elezioni politiche della primavera 2013, si è potuta notare, ogni giorno che passava, una preoccupazione crescente tra i dirigenti del Pd, in particolare proprio quelli fiorentini. Prima il segretario provinciale, Patrizio Mecacci, ha detto che se Matteo Renzi vincerà le primarie del Pd non è detto che lui lo appoggerà.
Poi il consigliere comunale PD Andrea Pugliese ha dichiarato che sarebbe opportuno che Renzi, prima di candidarsi, valutasse con gli organismi dirigenti del partito se dimettersi dal ruolo di sindaco. Questi giovani esponenti di partito sono uniti dalla sorte di essere pressoché sconosciuti anche al pubblico locale. Agli addetti ai lavori invece non sfugge il fatto che i due ricoprano ruoli politici sostanzialmente in rappresentanza di una vetusta nomenclatura che aveva in mano gli enti locali durante la precedente legislatura, ma che oggi impegna soltanto l'attenzione della Procura della Repubblica con inchieste in corso sulla loro gestione amministrativa.
Meccacci in particolare, come organizzatore della Festa del partito alle Cascine, ha preferito dare la parola a uomini quali Leonardo Domenici e Riccardo Conti, quest'ultimo tutti i giorni a passeggio tra gli stand. Invece Matteo Renzi e gli assessori della Giunta comunale hanno rischiato di non essere nemmeno invitati, nonostante amministrino la città in cui l'evento politico ha luogo. Ma anche a livello nazionale, sulle primarie del Pd la stampa da conto di nuove regole, che giorno per giorno vengono ipotizzate per sbarrare la strada al “pericolo numero uno”.
Perché i vertici stanno pensando a regole di partecipazione sempre più stringenti, anche se non è ancora stato fissato il calendario delle consultazioni? Nonostante gli annosi problemi nel partito a livello locale e nazionale, non sarebbe più opportuno che i coordinatori del partito agissero in silenzio, garantendo un comportamento equilibrato e responsabile, qualunque sia il candidato che rappresenterà il PD nelle consultazioni politiche? Che nel Partito Democratico qualcuno pensi di blindare le primarie con qualsiasi "stratagemma" è qualcosa che contraddice lo stesso appellativo di Democratico.
Chi può credere possibile poi imporre all'intero elettorato di centrosinistra un albo, o il tesseramento obbligatorio pur di ostacolare lo spontaneo sostegno a Matteo Renzi? E su quali basi statutarie si potrebbe rifiutare la tessera del Pd a qualcuno, solo perché intende prenderla solo per votare il sindaco di Firenze alle primarie? Chi vuole ostacolare il cambiamento? Chi ha paura di una rivoluzione elettorale che potrebbe rompere gli schemi? La risposta è semplice, basta immaginare cosa succederebbe se il sessantunenne segretario Pierluigi Bersani fosse sconfitto dal 37enne Matteo Renzi.
Il sindaco-candidato non nasconde il proposito di rivoltare il Pd come un calzino dopo l’eventuale vittoria. Cioè allontanare dal potere politico quegli esponenti che hanno gestito il PD negli ultimi venti anni, due decenni in cui non sono riusciti a contrastare lo strapotere di Silvio Berlusconi. Venti anni in cui in Russia si non alternati quattro capi dello stato, da Gorbaciov a Putin, negli USA quattro presidenti, da Bush senior a Obama, ma in Italia sono rimasti al governo sempre gli stessi, in entrambi gli schieramenti.