Già prima della sua uscita nazionale, circolavano voci felici sull’ultimo film di Virzì: “La prima cosa bella” è il suo film più importante e maturo, ed effettivamente non delude. Bruno (Valerio Mastrandrea) è un quarantenne irrisolto, un ombroso professore di Milano interiormente tormentato, un giorno sua sorella Valeria (Claudia Pandolfi) lo contatta per farlo tornare nella natia Livorno, dove la mamma Anna (Stefania Sandrelli), ancora estremamente vitale e gioiosa, sta morendo per una malattia terminale.
La famiglia si riunisce al suo capezzale e tutte le questioni irrisolte torneranno a galla; in particolare per Bruno che, dopo aver caparbiamente cercato di evitare negli anni ogni confronto, sarà costretto in pochi giorni a fare i conti con quelle vicissitudini familiari, quella città e quella madre che han plasmato la sua personalità in crisi. Virzì torna a dirigere nei luoghi che ben conosce concentrandosi sui suoi umanissimi personaggi che seguiamo col fiato sospeso perché non si ha il tempo di ridere che già la commozione del pianto si fa sentire, e non facciam in tempo a piangere perché già scappa un sorriso. Sceneggiata insieme a Francesco Bruni e Francesco Piccolo, il regista costruisce questa commedia dolce/amara sfruttando la forza di un ottimo cast e traendo ispirazione dalla tradizionale commedia all’italiana che alterna lacrime e sorrisi, ironia e malinconia, graffi e carezze. Come si conviene ad un ex alunno di Furio Scarpelli (metà del duo Age-Scarpelli che ha reso grande la commedia all'italiana) Virzì ha sempre dato priorità alla sceneggiatura, confermandosi erede convincente di questa grande tradizione per attitudine, scrittura e sguardo.
E attraverso il personaggio di Anna (interpretata nella sua giovinezza da Micaela Ramazzotti) resuscita e omaggia un decennio di storia del cinema italiano con una passione che vediamo sempre più raramente sugli schermi nazionali: da “C’eravamo tanto amati” di Scola a “Io la conoscevo bene” di Antonio Pietrangeli, dalla citazione diretta de “La moglie del prete” di Dino Risi (che nel film ha il volto di suo figlio Marco) al finale girato a Cala Furia, stesso luogo di un altro suo finale leggendario, quello de Il Sorpasso.
Una passione che lo esime dal cadere nella trappola di una citazione statica, di una fotografia, di un bozzetto di provincia, ma che piuttosto gli da la facoltà di dialogare coi corpi, col quel tempo e quella musica, in una coralità organica e strutturale. E allo stesso tempo lo esonera dallo sprofondare in una sterile operazione di nostalgia degli anni passati, come è invece curiosamente accaduto quest’anno per gli ultimi film di Tornatore, Placido, Rubini o De Maria.
ognuno ovviamente in modo diverso. La città natale del regista, a riprova di quanto detto, è lontana dall’esser rappresentata in modo apologetico o mitizzato, anzi, viene mostrata nella sua dimensione peggiore: quella di un provincialismo gretto e piccolo-borghese popolato di personaggi avidi, invidiosi e soli. La Livorno di Virzì è una città asfissiante da cui dover scappare ad ogni costo, ma anche un luogo che per la sua forza impedisce un totale distacco e una fuga definitiva. Fotografata magnificamente dall’italoamericano Nicola Pecorini (il direttore della fotografia preferito di Terry Gilliam) è decisamente molto più di uno sfondo, essa pervade l'intera opera funzionando come elemento significante: ritratto di una città che, analogamente alla madre, in una sorta di doppia lettura, rischia di “divorare” i propri figli per troppo amore, di spingerli alla fuga, ma nei confronti della quale non è possibile fare a meno di provare amore. Anna infatti è una donna innamorata della vita e del mondo, che ogni volta sopravvive e si reinventa con un’energia che entusiasma e paralizza al tempo stesso per il suo amore incondizionato e la sua ingenuità disarmante.
Nella sua leggerezza imbarazzante, nella sua tendenza incosciente ad abbandonarsi al sogno e alla speranza, si perdono i bisogni dei due figli che, una volta divenuti adulti, sono incapaci di vivere l’amore e la propria identità in maniera libera. Da una parte Bruno che si chiude, per sua stessa ammissione, in una dimensione cocciutamente anafettiva e del tutto infelice, dall’altra la sorella Valeria che si è accontentata e sposata il primo che le abbia dato tutte quelle sicurezze che l’infanzia non le ha dato, negandosi la possibilità di conoscere se stessa e quindi scegliere le persone con cui essere veramente felice.
In una sequenza ironica e divertente, Bruno dice al fratello ignaro appena ritrovato : «E’ una mamma importante sai…mi ha rovinato la vita…se vieni a conoscerla la rovinerà anche a te». Ma a differenza di altri film del regista, in cui si respirava un senso di amarezza profonda, in questo Virzì vuol dare un messaggio di speranza, di resistenza, una dichiarazione di voglia di vivere: un radicamento sugli affetti e sui sentimenti puri che si risolve, malgrado tutto, in una specie di inno alla vita.
Nella lunga e incredibile sequenza che mette insieme in un unico tempo narrativo il matrimonio e il funerale della madre, anche le caratterizzazioni minime dei personaggi di contorno fanno fatica a contenere la loro potenziale vitalità ed emergono come visioni che invadono lo schermo, fino a quando tutto questo amore e tutta questa sofferenza non si placano nell’orizzonte infinito del mare; in un finale straniante in cui l’altisonante canzone dei Camaleonti, “Eternità”, esalta un momento quasi onirico: nel tuffo di Bruno, in quel bagno finale che equivale ad un nuovo battesimo, sembra realizzarsi la catarsi da una vita agra e bloccata.
Laura Iannotta