C’era una volta un regista irlandese, trapiantato in America, che seppe farsi apprezzare dal pubblico con titoli come In nome del padree The Boxer , e far vincere statuette dorate ai suoi attori per film come II mio Piede Sinistro e In America ; un regista a cui dobbiamo sicuramente l’estro di Daniel Day Lewis, vero e proprio feticcio di questo sessantenne che risponde al nome di Jim Sheridan. Ora lo Sheridan ci propone questo Brothers, e dopo il fiasco del film sul rapper 50 Cent, sembra anche qui confermare una certa appannatura nello sguardo.
Sam Cahill, irlandese come tutti protagonisti di Sheridan, è un militare sul fronte afgano. Vede pochissimo la moglie Grace e le due figliolette. Prima di ripartire per la guerra, trova il tempo di riaccogliere in casa il fratello Tommy, un poco di buono appena uscito di galera. Con le ovvie resistenze di mogliettina e soprattutto di papà Hank, inossidabile reduce vietnamita e genitore rigido sino all’inverosimile. Poi accade che Sam riparta per il fronte e venga creduto morto, e il fratello “cattivo” Tommy si prenda cura della sua famiglia, della sua casa, e pure un pelino troppo di sua moglie (ma i due non vanno aldilà di un casto bacio).
Ma Sam non è morto, e il suo ritorno all’ovile si porta dietro non pochi problemi : paranoie familiari e private derivate dall’inferno in cui ha vissuto e che da irreprensibile americano patriota l’ha portato ad essere assassino a sangue freddo di un commilitone. In questa tensione crescente Sam comincia a sospettare Grace e Tommy di intendersela e gli equilibri familiari vanno in frantumi, al punto che una delle bambine gli grida contro che preferiva “quando era morto” e la presenza al fianco di mamma dello zio ex galeotto. In un crescendo quasi noir, le paranoie del militare aumentano fino alla decisione, forzosa, di ricoverarsi in un istituto e recuperare l’innocenza perduta, forse per sempre. Fin qui, nulla di male : se non fosse che il film è il remake , e ne porta pure lo stesso titolo originale, di Broedre della danese Susanne Bier, allieva di Von Trier, in Italia malamente tradotto con “Non desiderare la donna d’altri”.
Ma il problema sta nel fatto che stravolge nettamente il senso ed il significato di quell’opera, premiata anche al Sundance nel 2005. Tanto per iniziare, il fratello “cattivo” era veramente cattivo, non uno sbandatello come il Tommy di Sheridan. Era uno stupratore incallito, e la sua vicinanza alla moglie del fratello e alle di lui figlie piccole assumeva tutto un altro spessore, e tanto più era bella e piena di speranza la nota di redenzione che la decisione che questi (Jannik, nell’originale) prendeva nell’assumersi finalmente una responsabilità verso gli altri.
Oltretutto la storia d’amore con la moglie del fratello assumeva caratteri meramente platonici, e non fintamente repressi come in questa versione irlando-statunitense. Anche Michael (qua Sam ) e la sua mutazione in negativo avevano il senso di far ulteriormente riflettere sull’impossibilità di un giudizio netto fra bene e male e quanto questi termini siano mutabili e i valori spesso si modifichino. Qua, invece, lo sguardo di Sheridan molla ad un certo punto della storia Tommy per concentrarsi sulle atrocità subite dal Cahill maggiore, creando uno squilibrio narrativo che finisce per svilire il messaggio e tramutarsi in vuota retorica antibellica, messaggio, peraltro, ben presente e più incisivo nell’originale danese.
Anche il finale sembra pure meno pessimista e più speranzoso nell’opera primitiva (nel senso di venuta prima) della Bier. Scritto con David Benioff, specialista del melodramma un po’ facile (Il cacciatore di Aquiloni, o quell’immensa sciocchezza di Troy, forse il film più brutto di tutto il decennio – per non volere andare troppo oltre nel tempo ) Brothers fallisce ogni intento prepostosi, e la riprova è che pure l’ottimo cast a disposizione di Sheridan questa volta non gli fa raggiungere i risultati del passato. Tobey Maguire e Jake Gyllenhall sembrano impalati dentro a dei manichini monodimensionali, che li mettono in sofferenza ; un po’ meglio se la cava la pur brava Nathalie Portman, anche lei comunque compressa dal suo character nello script.
Per non parlare del disagio che visibilmente prova Sam Shepard nei panni del padre di famiglia americano alla Hulk Hogan. Alla fine, chi se la cava meglio sono le due bambine piccole : particolarmente Bailee Madison, dieci anni e la fortuna di non avere un visino “carino”. Segnatevi il nome, ce la ritroveremo da grande a fare ruoli da “cattiva” con successo. Marco Cei