Mi sono sempre chiesta dove risiedesse la legittimazione delle cose: a tal proposito Rilke parla di necessità come il punto di partenza più onesto, come la forma più pura. Il merito e la forza di Lebanon, Leone d’oro all’ultima mostra di Venezia (e ora in nomination per dieci Ophir, gli Oscar isaraeliani), risiede proprio nel suo essere intimamente e dolorosamente “necessario”. L’esordiente Samuel Moaz scrive questo film basandosi sulla sua vita, sulla sua reale esperienza di soldato durante la prima guerra del Libano (“qualcosa è successo realmente, qualcos’altro no”) nel tentativo di superarne il terribile trauma. Così come avevano fatto anche Ari Folman in “Valzer con Bashir” e Joseph Cedar in “Beaufort”, rievocando, con tutto ciò che questo comporta, un rimosso che evidentemente ha lasciato cicatrici indelebili nella coscienza di una generazione.Lebanon è insieme un film di denuncia, che evidenzia quanto ci sia ancora bisogno di pellicole contro la guerra, e di catarsi, una seduta di psicoanalisi che per essere efficace è conscia del fatto che il trauma non basta descriverlo ma deve essere affrontato, rivissuto in prima linea, per l’appunto.
Con un budget bassissimo a disposizione, Moaz affronta dunque il viaggio nel più radicale dei modi: entrando di nuovo dentro la Guerra, calandosi realmente al suo interno. Il film inizia infatti con quattro giovanissimi militari israeliani (l’artigliere è il suo alter-ego) chiusi dentro un carro armato, incaricati di perlustrare un villaggio nemico già bombardato e abbattuto dall’Aviazione Militare israeliana. “Una passeggiata”, li incoraggia il luogotenente, ma nel giro di poche ore i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale: scende la notte e i quattro soldati restano rinchiusi nel centro della città senza poter comunicare con il comando centrale e circondati dalle truppe d’assalto siriane che avanzano da ogni lato. L’idea interessante è quella di aver scelto di ambientare il film quasi per intero dentro a quel carro armato, mostrando l’esterno attraverso il riquadro circoscritto del mirino del periscopio del tank.
Il mondo esterno ci è quasi del tutto precluso se non fosse per quelle inquadrature catturate attraverso il letale occhio puntato dall’artigliere, pronto a fare fuoco. La visione in soggettiva unisce lo sguardo del protagonista, del regista e dello spettatore nello stesso punto di osservazione, creando un’inevitabile identificazione. Maoz dirà infatti: "Non voglio che il pubblico comprenda solamente il sentimento, ma voglio che lo provi, metto il pubblico all’interno del carro armato per farlo identificare completamente con il personaggio". Una scelta estetica che ci porta a riflettere metacinematograficamente sull’esperienza stessa del vedere e sulle sue responsabilità.
Chiamati in prima linea anche noi, come Alex di Arancia meccanica, siamo costretti a guardare l’orrore con la stessa colpa, poichè vedere significa uccidere. Calati dentro lo stesso sarcofago cingolato, proviamo lo stesso asfissiante caldo, la stessa aria viziata e maleodorante dello spazio chiuso, la stessa oscurità e claustrofobia, in una sorta di esperienza totale e indimenticabile. Le immagini shoccanti che subiamo sono inoltre amplificate dagli assordanti rumori di questa ferraglia semovente, dai sobbalzi e le esplosioni che investono il carro come una colonna sonora infernale.
Gli è stato criticato di aver ecceduto, soprattutto nella prima parte, nella messa in scena della violenza, ma anche questo risponde ad una necessità interiore: “nei giorni dell’addestramento - dice Maoz - sparavamo ai barili pieni di benzina che esplodevano come giganteschi fuochi d’artificio. La gente pensava fosse “figo”. Poi ti ritrovi a mirare a persone vive ed è tutta un’altra cosa”. La sequela spaventosa di queste prime immagini restituisce appieno il senso di angoscia e di forte sconvolgimento provato dagli stessi soldati, di fronte al quale sono del tutto impreparati.
Dice ancora il regista: “Ho vissuto la guerra da dentro il carro armato, stupisce l’orrore che si prova. Un essere umano non ha sufficiente fantasia”. “L’uomo è di acciaio, il carro armato è solo ferraglia” recita la frase scritta sul tank; ma è una ferraglia pulsante, un mostro che sembra espellere liquidi organici, scudo e trappola allo stesso tempo. Questo luogo così costretto comprime le psicologie dei personaggi che esplodono in crisi di rabbia, di pianto, di dolore e di angoscia. Le nevrosi dei quattro soldati infatti non tardano a manifestarsi.
Attraverso i primissimi piani dei loro volti in penombra, Maoz scava nel tessuto umano devastato dalla violenza di ogni guerra, capace di condurre all’annientamento psicologico oltre che alla morte (lo sguardo di uno di loro alla fine sarà definitivamente perso negli allucinati spazi della follia). “Ho vissuto sull’onda dell’inerzia del tempo che passa in attesa di riuscire a raccontare quello che mi era successo. […] Mia madre mi accolse al ritorno dalla guerra felice che fossi tornato a casa sano e salvo, ma in realtà ero profondamente ferito”.
Dopo 25 anni da quell’esperienza, Maoz trova la forza di filmare la sua storia personale, a rievocarne l’orrore trovando la forma espressiva necessaria affinché non fosse solo confessione ma rappresentazione universale e catartica. Caldamente applaudito e apprezzato per il valore morale e civile della sua pellicola, alla consegna del Leone d’oro Samuel Maoz dedicherà questo film “a tutti coloro che come me sono tornati dalla guerra, a quelli che sono riusciti a condurre una nuova vita, nonostante avessero la morte dentro.
Il giorno che capiremo di dover smetter di uccidere, sarà il giorno in cui non ci sarà più alcuna guerra” Laura Iannotta