Videocracy, il nuovo film di Erik Gandini (autore, tra gli altri, del bel documentario su Guantanamo “Gitmo - Le Nuove Regole della Guerra”, di “ Surplus - Terrorized into Being Consumers” e di “Sacrificio - Chi ha Tradito Che Guevara?”) ha fatto da subito parlare di sé: inizialmente scartato dai selezionatori ufficiali della sezione Orizzonti della 66° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, è stato immediatamente inserito da Francesco Di Pace nella programmazione della 24° Settimana Internazionale della Critica come “evento speciale” in collaborazione con le Giornate degli Autori, e la Rai (TV di Stato, servizio pubblico che, è sempre utile ricordarlo, ha come mission quella di cercare di migliorare il livello culturale medio del paese…) e Mediaset gli han rifiutato il passaggio del trailer giustificandolo con il rispetto della par-condicio, nonostante le prime elezioni in vista siano le regionali del 2010.
Episodio tragicamente paradossale quello dell’oscuramento del trailer, visto che il film, sostanzialmente un documentario su come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent'anni e sul ruolo che hanno avuto le tv commerciali in questo cambiamento, si interroga, sgomento, sulla rassegnazione e l’incapacità di ribellarsi all’esproprio dei propri diritti civili. Prodotto dalla “Atmo AB” di Gandini e Tarik Saleh, in collaborazione con la “Zentropa” di Lars von Trier, il film inizia in un’anonima serata del 1976, quando una televisione locale trasmette un quiz in cui i telespettatori chiamano da casa per rispondere a delle domande: per ogni risposta corretta, una casalinga doveva togliersi un indumento accennando una breve danza; come dice lo stesso regista: “nessuno allora avrebbe potuto immaginare che proprio quello squallido spettacolo a colori ancora sgranati sarebbe stato l’inizio di quella rivoluzione televisiva che avrebbe per sempre rivoluzionato il panorama politico, sociale e culturale dell’intero Paese”.
Nato e cresciuto in Italia, Erik Gandini si trasferisce in Svezia nel 1986, quando Berlusconi cominciava la sua avventura al Milan e la sua campagna di liberalizzazione delle Tv dalla misera rete di stazioni locali al sogno di un vero e proprio “sistema” con tre canali privati messi in concorrenza con la Rai, cambiando inesorabilmente l’estetica, e l’etica, italiana. Ma attenzione, non si tratta di un documentario politico e militante o di un pamphlet antiberlusconiano, piuttosto, come riferisce più volte lo stesso autore durante le sue interviste: “ di un lavoro emotivo, ispirato dal cinema di Antonioni”, un’indagine di antropologia sociale e civile sull’“immaginario mediatico” nazionale degli ultimi trent’anni. “Questo mondo mi fa paura”, dice ancora Gandini, “la televisione ha un potere su questo paese che è pazzesco […] ma vivendo in Svezia da più di venti anni non mi sono abituato gradualmente all’orrore italiano, non ha mai smesso di stupirmi.” Il regista affronta il tema del potere della televisione (appunto video-crazia) in Italia grazie a materiale di repertorio, a interviste esclusive a Lele Mora e a Fabrizio Corona e alla storia di un giovane operaio veneto che sogna morbosamente e ossessivamente di sfondare in televisione come il nuovo Van Damme italiano.
Attraverso un montaggio di ironica e implacabile consequenzialità visiva e narrativa mette insieme poche ma illuminanti verità: le aspiranti veline dal viso triste, il regista del Grande Fratello (che controlla i meccanismi del potere del suo piccolo mondo), l’improvvisata fotografa di Villa Certosa e dintorni, il Billionaire e i già citati Lele Mora e Fabrizio Corona, sono solo metafore e rappresentazioni dell’imbarbarimento di un’intera nazione anestetizzata dal controllo dell’informazione e ossessionata da un modello socio-culturale votato alla più sfrenata banalità e vacuità, all’affannosa ricerca di fama, gloria e soldi facili.
La creazione di un sistema di disvalori di cui Berlusconi è in qualche modo il filo nero che li unisce, l’amplificatore del lato oscuro di un Paese: “in una videocrazia la chiave del potere è l'immagine. In Italia soltanto un uomo ha dominato le immagini per più di tre decenni. Prima magnate della TV, poi Presidente, Silvio Berlusconi ha creato un binomio perfetto caratterizzato da politica e intrattenimento televisivo, influenzando come nessuno altro il contenuto della tv commerciale in Italia.
I suoi canali televisivi, noti per l'eccessiva esposizione di ragazze seminude, sono considerati da molti uno specchio dei suoi gusti e della sua personalità”(Gandini). Un sistema che dapprima ha abbagliato, poi drogato, e infine ridotto questo Paese ad un insieme di morti viventi decerebrati e voraci. Videocracy non è un’opera contro Berlusconi, ma un’opera contro il Berlusconi che è in noi: è difficile persino guardarsi in faccia dopo questo film. Quando il film finisce ed esci dalla sala non puoi credere di vivere veramente in questa Italia corrotta da trent'anni da questo carosello mediatico sempre più spudorato e arrogante, un’Italia in cui, come affermava Moretti ne Il Caimano “Berlusconi ha già vinto”, perché ha fiaccato e infine annicchilito la capacità critica delle persone come neanche sotto il regno del Re Sole, in cui ogni fonte di informazione non doveva turbare gli animi ma solo rasserenare e allietare. L’angosciante domanda che ti rincorre per tutta la durata del film è sempre la stessa: “come ci siamo arrivati?!!??”.
Non che l'inquietante interrogativo sia ingenuamente nuovo, ma vedere tutta insieme la concentrazione di idiozia e la deriva anticulturale nella quale stiamo affondando, è davvero troppo. Non c’è niente di nuovo in Videocracy, niente che non si sappia. Semplicemente Gandini ci parla di come la cultura dell’immagine e dell’apparire abbia prodotto dei mostri e dei modelli di comportamento che mai avremmo voluto vedere. La voce off del regista, pacata e rassicurante, predispone ad una specie di narrazione fiabesca che invece stride e crea un effetto di straniamento con le immagini dell’orrore: con terrore subiamo le espressioni ebeti e disarmanti di Mora che pontifica tra le svastiche e gli inni fascisti del suo cellulare o il membro ben unto di Fabrizio Corona, senza la possibilità di guardare chiudendo almeno un occhio (non a caso è stato definito in Svezia l’ "horror movie dell’anno"…).
In questo senso verrebbe forse da rimproverare a Gandini di averci "violentato" usando lo stesso « linguaggio » e le stesse immagini usate nei noti gossip illustri nazionali; in fondo cosa fa di diverso se non reiterare la formula per cui facendoli apparire e parlare nella scatola magica dai loro potere ? Lo dice lo stesso Mora a chiusura del sipario : "La tv è una scatola magica... ti vedono e diventi popolare. Basta apparire". Ma non è forse questo un modo per combattere il sistema proprio al suo interno? Utilizzare una visione omologa, ma straniata, del sistema, per permetterci finalmente di guardarci allo specchio: Gandini sfrutta la voglia di apparire di questi soggetti, il loro ego smisurato, per metterli davanti la propria macchina da presa e farsi raccontare aneddoti e curiosità, abitudini e vita privata, ricavandone un ritratto ridicolo, paradossale e insieme agghiaciante della realtà che viviamo.
La soglia del nostro stupore e della nostra reazione nei confronti della catastrofe etica, istituzionale, umana e culturale che stiamo vivendo si è abbassata così tanto da arrivare a considerare normale questo orrendo spettacolo; proporre il disvelamento di tali immagini in un altro contesto, è un modo per innescare una sorta di catarsi e maturazione. Concludo con le parole dello stesso regista su cui meditare: “l’Italia è interessante perché qui tutto il peggio si è avverato: potere mediatico e politico coincidenti, l’annullamento della memoria storica, una banalità del male che va ben oltre Berlusconi.
[…] se, come me, vieni dall’estero, tutti si aprono liberamente se non li limiti e lasci che il potere si sveli da solo grazie al suo egocentrismo, hai sorprese clamorose. E quando mostro in Svezia certe immagini, da “Menomale che Silvio c’è” al regista televisivo che confessa che il premier odia il verde e che nessuno può avere scenografie di questo colore, cose da imperatore, pensano sia satira. Ma, come in Gomorra, il sistema lo capisci dai piccoli ingranaggi, figli dell’ultimo trentennio di potere berlusconiano.
Lui è “solo” un’icona mondiale di questa favola inquietante, un modello assoluto inseritosi nel subconscio collettivo perché l’80% degli italiani ha la Tv come fonte d’informazione primaria, se non unica: l’incubo orwelliano realizzato, con la parte cupa sostituita da applausi e risate a comando, dall’edonismo e l’etica del divertimento a tutti i costi, ormai l’unico obiettivo”. Laura Iannotta