Seconda guerra mondiale, primo anno dell'occupazione tedesca in Francia. Il colonnello delle SS Hans Landa, “il cacciatore di ebrei”, dopo un lungo interrogatorio, decima l'ultima famiglia ebrea sopravvissuta in una località di campagna. Alla strage si salva miracolosamente solo la piccola Shosanna, la quale fuggirà a Parigi diventando in seguito proprietaria di una sala cinematografica in cui confluirà un doppio tentativo di eliminare tutte le alte sfere del nazismo, Hitler compreso. Al piano messo in atto artigianalmente dalla ragazza infatti, se ne somma uno più complesso.
Ad organizzarlo è un gruppo di ebrei americani, i “bastardi” del titolo, guidati dal tenente Aldo Raine che non si fermano dinanzi a niente pur di eliminare e far pagare ai nazisti le loro colpe. Inglorious Basterds è stato sicuramente uno dei film più attesi dell'anno e decisamente non ha deluso le aspettative.Ancor prima che facesse il regista, ai tempi in cui vendeva videocassette in un negozio, Tarantino si innamorò di “Quel maledetto treno blindato” (traduzione italiana di «The Inglorious Bastards») film bellico del 1978 del nostro Enzo G.
Castellari, giurando a se stesso che ne avrebbe fatto un remake. Ha lavorato a questo progetto per quasi sette anni, ma più che è un remake tout court, Inglorious basterds è piuttosto un omaggio che rievoca temi ed atmosfere del “più americano dei registi italiani”, come spesso viene considerato Castellari, il quale appare anche in un piccolo cameo nella scene finali del film (senza considerare che Brad Pitt, fingendosi italiano, dice di chiamarsi «Enzo Girolami», vero nome di Castellari).
Dopo la visione del film non è difficile intuire i motivi di tale fascinazione: la sua vocazione a un cinema spettacolare, la rapidità di montaggio, il sense of humour che circola nel film, le scene d'azione, lo stile grintoso, il ritmo, le sequenze ariose, sono tutti elementi di cui Tarantino si nutre e che metabolizza restituendoceli, come di consueto, in un universo nuovo e assolutamente personale. Onnivoro mangiatore di cinema, Tarantino utilizza i grandi maestri stravolgendone sempre le “regole” secondo il suo stile e il suo gusto; Pabst, Lang, Murnau, Von Sternberg, Hawks, Riefenstahl, Lubitsch, Leone, Hitchcock, Peckinpah, sono solo i primi dei tanti maestri che omaggia in questo film, assieme a tutto il cinema di serie B e all’espressionismo tedesco (soprattutto nel modo in cui viene filmato e illuminato il set), con una libertà d'invenzione che meraviglia. Non solo, i titoli di testa che scorrono sullo schermo echeggiano i caratteri tipici degli «spaghetti western», e al loro termine si apre il primo dei cinque capitoli : «Once Upon A Time in Nazi-Occupied France» (parafrasando Leone), la cui immagine di apertura si presenta come un omaggio agli sconfinati spazi del western alla Ford, con tanto di fattoria e padre spaccalegna, per proseguire poi in un continuo e vorticoso rimescolamento dei generi, dal film di guerra, alla commedia brillante, al film storico, al gangster movie e al melodramma, inanellando una citazione dopo l'altra (da Sentieri selvaggi a Vogliamo vivere, da Impiccalo più in alto a Il sergente York e Duello al sole).
Tarantino mette in campo un repertorio di trovate geniali, folli e grottesche, sempre fuori da schemi prevedibili, che concorrono a stravolgere la settima arte. L’ultimo film di questo geniale autore, va detto, è un vero e proprio capolavoro, in grado di mettere in secondo piano i soliti discorsi critici sul “pulp”, sul “citazionismo filmico”, sul “postmodernismo” o sulla “violenza esasperata” ricorrenti ad ogni nuova uscita del nostro. Tarantino restituisce l’immagine alla sua autonomia, al suo essere solo un’immagine, un segno; rifiuta l’immagine “funzionale” del racconto classico.
La divisione in quadri ad esempio, trasgredisce la logica del linguaggio filmico tradizionale e suggerisce la possibilità di destrutturare la realtà e raccontarla a pezzi, senza per questo fare a meno della sua Verità. Allo stesso modo accade per le citazioni: Quentin non cita, casomai replica fedelmente (secondo una modalità che fu anche godardiana), crea, lavora a un immaginario nuovo, sebbene alla sua costruzione concorrano brandelli di altri scenari, di altri film. Durante lo show di David Letterman, questi gli chiede come mai Inglourious Basterds non sia scritto esattamente nella lingua di Shakespeare (la E al posto della A), la sua risposta rivela semplicemente questo concetto: «No, infatti, si scrive e si legge nella mia!».
Con straordinaria apparente disinvoltura, Tarantino sperimenta e riesce a cambiare i connotati, a spostare i “codici” del cinema con eccezionale libertà. Si veda ad esempio il dialogo iniziale tra il colonello Landa e il fattore che tiene nascosti gli ebrei: anche registi bravissimi con le parole avrebbero tremato all’idea di iniziare un war film con la scena di un dialogo che dura più di 20 minuti. È una delle scene più belle e di maggiore tensione del film, nella quale viene fuori con evidenza la natura trasgressiva del regista, la sua vera forza d’autore: quando il cacciatore di ebrei tira fuori la sua pipa assurda, enorme, da commedia, una pipa che potremmo trovare in un film di parodia (tant’è vero che il pubblico ride) non in un film di guerra.
Ecco il talento di Tarantino: forzare una forma consolidata di cinema oltre il suo schema. Ancora, a differenza di tutti i film di serie B di guerra che piacciono tanto al regista, in modo inedito in Inglorious basterds c’è pochissima azione, che si concentra nel finale o in deflagrazioni improvvise di violenza (come nella sparatoria nella locanda, una sequenza tra l’altro di intelligentissima costruzione): è un film di circa 2 ore e 40 fatto soprattutto di primi piani e dialoghi, ma nonostante ciò, esci fuori e ne vedresti volentieri ancora un’altra ora. Questo sicuramente è dovuto anche al fatto che il suo cinema è assolutamente privo di qualsivoglia rigidità, sia formale che contenutistica.
La trasgressione più impegnativa, più originale, risiede infatti nello stravolgere il “dato oggettivo”: nel finale Hitler muore in un cinema costretto a guardare il primo piano della sua carnefice ebrea su uno schermo in fiamme. Dice lo stesso regista: "Noi siamo riusciti dove Tom Cruise ha fallito [Operazione Valchiria] , l'attentato al Führer lì fallisce, ovviamente per rispettare la storia”. Tarantino ragiona sul mito, sul cinema, e si fa beffe anche della Storia deformandola per esigenze di copione. In una sorta di contrappasso dantesco, i nazisti muoiono bruciati nel cinema di Shosanna a seguito dell’accensione di un cumolo di pellicole di nitrato d’argento (tre volte più infiammabile della carta) come gli ebrei sterminati nelle camere a gas e cremati per farne scomparire le tracce.
“Spegnere l’incendio con la benzina…” suggerisce la voce di David Bowie. Un’immagine potente e indimenticabile, ricca di quella vertigine sensoriale, materica, che solo il cinema è in grado di restituire. La grandiosa scena del rogo e dell'esplosione finale è un vero e proprio monumento al potere demiurgico ed estetico del cinema di produrre immaginario, strumento di rappresentazione e spettacolarità. Il cinema come campo di battaglia (Samuel Fuller), come luogo nel quale si può realizzare il desiderio tanto agognato di un’altra Storia possibile, il luogo della vendetta.
Vendetta che riguarda, magari non in primissimo piano, anche gli indiani d’America, riportati alla memoria da quella sporca dozzina di Bastardi guidati dall’apache Brad Pitt, che fanno gli scalpi ai nemici come i veri americani d’origine, o dalle guance di Shosanna disegnate col segno rosso di guerra dei pellerossa; o ancora, si pensi all’accenno che viene fatto sulla tratta degli schiavi quando parlano della prigionia di King Kong, e non è un caso che il proiezionista, personaggio fondamentale per la riuscita del piano, sia un nero. Tarantino mette a disposizione di tutti il sogno di giustizia più sognato del secolo. E’ un colpo di genio si, ma è anche un atto di amore dedicato a chi sta davanti la macchina da presa.
Così come un atto d’amore è la devozione che dedica ai suoi interpreti, riuscendo ogni volta a trasformare attori noti, sconosciuti o dimenticati in vere e proprie icone (si pensi ad Uma Thurman, John Travolta, Harvey Keitel ecc.). E’ un rapporto istintivo e viscerale quello che crea coi suoi attori, quasi cannibalistico nella sua capacità di plasmarli e metterli alla prova fino allo stremo, dando loro battute straordinarie e scene allungate per sfidarne il talento (a volte anche a scapito del film stesso, com’era accaduto in Jackie Brown). Il Brad Pitt gigione dall’aria un po’ stupida (i Coen gli hanno aperto una nuova carriera) è da antologia, e ancora di più lo è Christoph Waltz (il colonello Landa) da anni fuori dal circuito del grande schermo, si è ritrovato tra le mani il ruolo della vita e il meritatissimo premio come miglior attore a Cannes.
Confessa Tarantino: «Se non avessi trovato l'attore giusto per il colonnello Landa, avrei rimesso lo script nel cassetto. Ero disperato, non c'era nessuno che potesse incarnare il suo genio linguistico; è un personaggio di cui sono molto fiero, ma rischiava di non uscire dalla pagina, perché dovevo scovare un attore poeta e poliglotta. Fortunatamente, quando Christoph ha letto due scene, mi sono detto: Eccolo. Il film si fa!». Questo ci fa capire quanto sia indispensabile vedere il film in lingua originale per non perdere l’eccezionale pastiche linguistico di francese, tedesco, italiano, inglese di cui si nutre.
E che dire anche di Melanie Laurent (Shosanna), finora timida attrice di piccoli film, qui si mostra ottima protagonista, surclassando anche una bravissima Diane Kruger. Come Tarantino fa dire a Brad Pitt rivolto allo spettatore nelle ultime battute del film: «Questo potrebbe essere davvero il mio capolavoro». Laura Iannotta