di Nicola Novelli Consigliere regionale dell'OdG Toscana A metà gennaio 2014 il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti dovrebbe approvare un documento di indirizzo sulla riforma dell'Ordine da sottoporre al Parlamento come base di un intervento legislativo di riforma. Elemento comune alle proposte in discussione l'accesso unico all'iscrizione attraverso laurea universitaria e corso di specializzazione, con esame di stato finale. Coerentemente con questo presupposto c'è chi punta al superamento della distinzione tra professionisti e pubblicisti, con l'eliminazione del doppio elenco, ad esclusione dei pubblicisti già iscritti, che diverrebbero comunque progressivamente un'entità residuale. Questo approccio dovrebbe suscitare non poche perplessità nell'opinione pubblica, poiché, pur favorendo una positiva crescita del riconoscimento sociale alla professionalità dei giornalisti, potrebbe provocare effetti collaterali non ben calcolati per quanto riguarda la libera espressione del pensiero attraverso i mezzi informativi.
Ciò a causa del particolarissimo assetto normativi italiano. Il sistema dell'informazione in Italia è disciplinato fondamentalmente da tre pilastri, la Costituzione, le leggi sulla stampa e l'esistenza dell'Ordine professionale. L'articolo 21 della Carta costituzionale stabilisce che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazione, perché la libertà di informazione consiste nel diritto individuale di cercare, ricevere e trasmettere informazioni. In questo, l'art. 21 sottintende i principi affermati dagli articoli 1, 2 e 3, in termini di tutela della persona umana, eguaglianza, sovranità popolare e partecipazione all'organizzazione del paese. Le leggi sulla stampa 47/1948 e 127/1958 modificano senza cancellare la disciplina dello stato fascista, trasformando l'autorizzazione governativa in obbligo di semplice registrazione dei periodici presso la cancelleria del Tribunale, in cui si deve indicare proprietario della testata, editore e direttore responsabile. La legge 69 del 1963 istituisce l'Ordine dei Giornalisti, che sino ad allora non esisteva.
L'OdG soddisfa l'esigenza di definire requisiti di garanzia per l'attività di mediazione svolta dall'operatore dell'informazione, nell'ambito del processo produttivo “vero e proprio”, cioè dell'industria editoriale. E' solo dal 1963 che il direttore responsabile (cioè civilmente e penalmente responsabile per i contenuti che vengono pubblicati) deve essere un giornalista iscritto all'OdG. Il combinato disposto delle tre leggi sulla stampa delinea così un sistema legale che non ha eguali nei paesi democratici.
La sensibilità del legislatore di allora e il timore di limitare la libertà di espressione con il filtro dell'accoppiata direttore responsabile-iscritto all'Ordine dei Giornalisti inducono il parlamento a varare la nascita di un ordine professionale, strutturato in due elenchi (unico caso in Italia) in cui il secondo, quello dei pubblicisti, è formato appunto da non professionisti. Perché si garantisce così la continuità di tutte quelle esperienze di giornalismo sociale, popolare, di base, che sono sempre esistite in Italia e che si manifestavano nel dopoguerra nei giornali murali a copia unica e successivamente nell'epopea delle radio e TV libere, nei giornali del movimento studentesco, ma anche, più semplicemente, nelle innumerevoli pubblicazioni associative, partitiche, di quartiere, parrocchiali, ecc., che pervadono e permeano la società italiana.
Per non parlare dell'esplosione informativa realizzatasi negli ultimi anni grazie alle risorse della comunicazione digitale on line. Il legislatore di allora aveva ben presente che l'effettivo esercizio della libertà non può essere condizionato dalla disponibilità dei mezzi economici, con il rischio che soltanto chi dispone di tali mezzi possa realizzare una presenza significativa nel settore informativo. Ma se la disciplina della libertà di divulgazione del pensiero risulta imperniata, anche nel nostro paese, sul divieto assoluto di controlli preventivi a mezzo di autorizzazioni, come si concilia allora una riforma dell'OdG imperniata sul postulato che “è giornalista solo chi svolge questa attività professionalmente e la può svolgere solo chi è pagato”? Il rischio è che in futuro un OdG, così riformato, generi dei limiti impliciti alla libertà di manifestazione del pensiero, che potrebbero diventare un ostacolo all'eguaglianza dei cittadini e alla libera espressione della persona.
A lungo termine potrebbe generarsi un progressiva riduzione della libertà di manifestare il proprio pensiero nell'ipotesi che la firma di direttore responsabile di qualunque testata giornalistica, registrata in tribunale, divenga un'esclusiva facoltà dei giornalisti professionisti iscritti all'ordine, cioè solo coloro che si sono laureati con un corso universitario e hanno superato l'esame di stato, magari previa contratto di lavoro da praticante. La questione non è una novità.
Anzi è stata sempre ben presente ai giuristi. Trenta anni fa nel Manuale di Diritto Pubblico curato da Giuliano Amato e Augusto Barbera, quest'ultimo nel capitolo dedicato alle Libertà dei singoli aveva a sottolineare che:
Dubbi sono stati sollevati anche in ordine alla conformità a Costituzione dell'attuale disciplina dell'Ordine dei Giornalisti, all'iscrizione al quale la legge 3 febbraio 1963, n. 69 ha subordinato l'uso del titolo di giornalista e l'esercizio della relativa professione ...Da qui l'invito a una più meditata riflessione sulla riforma dell'Ordine, in connessione all'attuale obbligo di registrazione dei periodici.Proprio l'individuazione di una professione giornalistica è stata contestata da una parte della dottrina giuridica, che ha individuato nella disciplina della stessa elementi comuni alla disciplina di altre professioni (medici, ingegneri, ecc.) ma che non sempre si conciliano con le esigenze di massima libertà di espressione e di diffusione del pensiero che deve presiedere all'attività giornalistica.
Perché è sincero il timore, che un domani non lontato, qualcuno si possa trovare nella necessità di migrare i propri server digitali all'estero, o di tutelare giudiziariamente il proprio diritto alla libera espressione, ricorrendo agli istituti dell'Unione Europea. Quale sorte sfortunata avrebbe il nostro paese se un suo cittadino sollevasse il dubbio di scarsa tutela delle libertà individuali, affermate dalla Dichiarazione Universale, che all'articolo 19 riconosce ad ogni individuo il diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere?