Tell my wife I love her very much she knows. Ground Control to Major Tom Your circuit's dead, there's something wrong. Can you hear me, Major Tom? Can you hear me, Major Tom? Can you hear me, Major Tom? Can you.... Here am I floating round my tin can Far above the Moon. Planet Earth is blue and there's nothing I can do. (Space Oddity, David Bowie, 1969) Con lo pseudonimo di Duncan Jones, il figlio di David Bowie dirige questo “piccolo” (solo perché costato 5 milioni di dollari) gioiello di fantascienza accolto con calore al Sundance Film Festival e premiato al Festival di Edimburgo e a Londra come migliore opera e miglior debutto alla regia.
Moon si svolge sulla Luna, in quella parte che non si vede mai dalla Terra. È lì che la società energetica Lunar ha la base per raccogliere un gas che ha risolto i problemi di inquinamento e di energia pulita del nostro pianeta, attraverso dei giganteschi “mietitrebbia” che arano la superficie lunare senza bisogno di guidatori e che devono solo essere svuotati quando i magazzini sono pieni. Un lavoro dunque che può essere svolto facilmente da un uomo solo, coadiuvato dal computer di bordo Gerty (fratello buono di Hall 9000 che in originale ha la voce di Kevin Spacey).
Il contratto lavorativo ha la durata di tre anni e quando inizia il film l'astronauta Sam Bell (interpretato da Sam Rockwell) sta contando i giorni che gli mancano all'agognato ritorno sulla Terra. Ma un incidente quasi mortale farà scardinare il meccanismo di inganni che si cela dietro questo lavoro e lo metterà inaspettatamente a contatto con un altro se stesso, rivelandogli così che la vita che si è costruito potrebbe non appartenergli. Prodotto dalla moglie di Sting Trudie Styler, il film si ispira al libro dell’ingegnere aerospaziale Robert Zubrin “Entering Space: creating a spacefaring civilization”, il quale ipotizza quali possano essere i ritorni economici che potrebbero spingere in alto gli investimenti nell'esplorazione e nella colonizzazione del sistema solare.
Una delle idee principali alla base di questo film dalle atmosfere grigie e claustrofobiche risiede proprio su questo: «questo libro mi ha davvero colpito - racconta il regista - non ho potuto fare a meno di pensare che se un giorno andassimo nello spazio per ragioni di profitto, anche lì saremmo disposti a tutto pur di fare affari» e ancora: «adoro la fantascienza, perché si presta molto bene ad affrontare temi universali, come le passioni, le debolezze e i vizi dell'agire umano». Duncan dimostra di sapere bene che la fantascienza è una specie di forma mentis, è qualcosa dentro la testa dello spettatore che ama quell'infinita e misteriosa desolazione degli spazi silenti che costringono i personaggi ad andare alle radici del concetto di umanità. Non è difficile immaginare che questa passione possa risalire al 1976, l'anno in cui il padre lo portò sul set di “L'uomo che cadde sulla terra” di Nicolas Roeg (di cui Bowie era il protagonista) e l'esperienza deve aver suggestionato non poco l'allora piccolo Duncan.
Dopo una laurea in filosofia e una lunga esperienza nella direzione di spot pubblicitari e videoclip il neoregista decide di rendere omaggio a quei film di fantascienza che lo hanno accompagnato durante l'adolescenza: “2002: la seconda Odissea”, “Alien”, “Blade Runner”, “Atmosfera zero”, “Solaris”,“Dark star” e, su tutti “2001: odissea nello spazio” (dice Jones: «i padri li ho già citati, il nonno è “2001: Odissea nello spazio”, padre di tutti»).
Anche i riferimenti letterali sono evidenti: Philip K. Dick, J.G. Ballard, William Gibson e George Orwell, e Duncan non fa nulla per nasconderli, anzi, li omaggia esplicitamente senza nessuna tensione citazionista, individuando un percorso affascinate che recupera addirittura il design e le interfacce tecnologiche così come erano state immaginate quaranta e più anni fa: le geometrie esagonali della base lunare, l'eccesso di bianco e nero, le tute, i caratteri delle scritte sugli schermi e tutta la tecnologia fatta di videotelefoni e pulsanti illuminati. Moon è decisamente il film imperdibile di queste settimane, che va assolutamente recuperato prima che scompaia del tutto: come tanti altri film è stato infatti doppiato, distribuito in pochissime copie (a Firenze era in una sola sala e gli esercenti hanno dovuto farsi la locandina da soli...) e poi abbandonato al suo destino, vittima di un mercato cinematografico in crisi che non se ne occupa. Emozionante, riflessivo, doloroso, introspettivo, celebrale ed antispettacolare, Moon è un film d'altri tempi, come non se ne facevano da anni: si resta davvero meravigliati nel trovare finalmente di nuovo in sala un film che non punta su effetti speciali o su visioni apocalittiche del futuro, quanto piuttosto sull'idea esistenziale e filosofica della condizione umana.
In un contesto “alieno” l'essere umano risulta, per contrasto, maggiormente visibile e la sua assoluta solitudine (“I am the one and only” canta tutte le mattine la sveglia di Sam Bell) diventa lucida e profonda analisi del presente. L' odissea esistenziale di Sam, costretto a fare i conti con la scoperta della sua “non-unicità” è un'evocativa analisi dell'uomo e della sua ragion d'essere. Il rigore della macchina da presa poi abbatte ogni paravento e ogni barriera che potrebbe separarci dalla visione: noi siamo lì, accanto a lui, ogni sua scoperta è una nostra scoperta, carica della stessa meraviglia e della stessa dolorosa consapevolezza.
E in questa identificazione siamo sicuramente aiutati dall'interpretazione intensa e commovente di Sam Rockwell (interprete di “Soffocare”, “Frost/Nixon - il duello”, “Il miglio verde”, “Confessioni di una mente pericolosa”, “Galaxy Quest”, “Joshua” ecc.) che Jones ha voluto fortemente al suo fianco: «sono sempre stato un suo fan, questo film l'ho scritto apposta per lui, perciò il protagonista si chiama Sam». Un attore che più volte ha dato prova del suo talento, ma mai come in questo film: «per rendere reale l'illusione del suo doppio personaggio ha dovuto lavorare duro.
Non penso che ci sarebbe riuscito qualcun altro - precisa Jones - perché quello che fa dopo aver assunto le vesti di vari personaggi è geniale. Questa è sicuramente una delle sue migliori performance». Il set di Moon in fondo non è che il doppio, triplo, quadruplo corpo dello stesso Sam Rockwell, imprigionato in un racconto già scritto, la cui percezione viene elaborata da un trucco della mente, dal modo in cui i ricordi vengono, anche intimamente, manipolati. Contribuiscono a fare di questo film un'opera prima folgorante e intelligente anche l'ipnotica e avvolgente colonna sonora stile new age di Clint Mansell (già collaboratore di Aronofsky, è suo l'impressionante tour de force musicale di “Requiem for a dream”), le eleganti scenografie minimaliste e la splendida e gelida fotografia di Gary Shaw. Anticipiamo che Duncan sta già lavorando ad un secondo progetto (che dovrebbe intitolarsi “Mute”), una personale rivisitazione degli universi di “Blade Runner”, con un budget cinque volte maggiore, ma speriamo con lo stesso genuino intimismo. Laura Iannotta