Al Cinema Vacci Tu - Gran Torino, o L'epica di una nazione

Redazione Nove da Firenze
Redazione Nove da Firenze
27 marzo 2009 19:26
Al Cinema Vacci Tu - Gran Torino, o L'epica di una nazione

Gran Torino - Regia: Clint Eastwood; sceneggiatura: Nick Schenk; fotografia: Tom Stern; montaggio: Joel Cox e Gary Roach; musica: Kyle Eastwood e Michael Stevens; interpreti: Clint Eastwood (Walt Kowalski), Christopher Carley (Padre Janovich), Bee Vang (Thao Vang Lor), Ahney Her (Sue Lor); produzione: Warner Bros. e Village Roadshow Pictures; distribuzione: Warner Bros.; origine: USA, 2008; durata: 116’.
Il primo pensiero che viene in mente dopo la visione di questo film è: “ma come fa quest’uomo a girare solo capolavori?” Ebbene si, anche questa volta Clint dirige un film semplicemente monumentale, snobbato dagli Academy Awards come il precedente Changeling, ma reduce negli Stati Uniti di un inaspettato successo.

Di nuovo attore dopo Million Dollar Baby, Clint Eastwood è Walt Kowalski (come lo Stanley Kowalski magnetico e brutale di Un tram che si chiama desiderio) vecchio reduce pluridecorato della Guerra di Corea che dopo aver lavorato più di quarant’anni in una catena di montaggio della Ford, vive la propria pensione e solitudine sorseggiando birra in veranda col proprio cane.
Il film si apre coi funerali della moglie e con lo sguardo di Walt carico di rabbia e di rancore verso i figli e le loro famiglie, irrispettosi e opportunisti, lontani anni luce dai valori con i quali ha vissuto.

Burbero, razzista e misantropo, tra un commento sarcastico e un mugugno (Walt non parla, ringhia!) osserva anche il vicinato cambiare colore: lui come ultimo baluardo della “razza bianca” in un quartiere ormai completamente invaso da asiatici, latini e neri.
Ma il destino si sa è beffardo, e sarà proprio il vicino di casa Thao, figlio di una famiglia di immigrati asiatici, a scardinare le sue difese e a veicolare un legame profondo generato dalla conoscenza. Costretto dal cugino e dalla sua banda, il timido Thao tenta infatti di rubargli la splendida Gran Torino del 1972, custodita religiosamente in garage; così la famiglia di Thao, per riscattarlo dalla colpa e dall’umiliazione, lo costringe a lavorare per lui.

Sarà l’inizio di un cambiamento: ben presto le circostanze portano Walt ad assumere un ruolo paterno nei confronti del giovane che a sua volta gli farà comprendere che i confini da difendere (get off the lawn! - via dal prato!) sono fatti per essere allargati.
Con Gran Torino Eastwood dimostra definitivamente di essere l’ultimo dei registi in grado di lavorare con i grandi temi dell’esistenza senza usare mai un grammo di troppo di enfasi, senza usare scorciatoie e facili effetti.

Ciò che sorprende in primo luogo infatti è la semplicità solenne ed essenziale tipica del miglior cinema classico: Eastwood ci racconta storie apparentemente semplici, lineari, che vanno dritte al cuore del tema che vogliono trattare, senza troppi fronzoli e senza spostare oltremisura lo sguardo dello spettatore da ciò che gli vuole mostrare.
Questioni sociali (razzismo, integrazione, comunità, frontiera) e umane (la famiglia, i rapporti generazionali), dilemmi morali (la vendetta) ed etico-religiosi (colpa, peccato, sacrificio e redenzione), sono riletti attraverso un’ironia caustica, feroce e implacabile, che sfocia nel dramma shakespeariano della violenza delle faide.

E c’è anche una buona dose di ironia autoreferenziale nel raccogliere in un unico personaggio l'eredità dei mitici cowboy di frontiera che spesso il cineasta si è trovato ad interpretare nell’arco della sua carriera di attore, portando a compimento una riflessione sulla vendetta e sulla violenza iniziata quasi quarant'anni fa per le strade di San Francisco: Walt è Harry Callaghan, è Thomas Highway (il sergente di Gunny), è il pistolero William Munny de Gli Spietati, nonché il manager Dunn di Million Dollar Baby, tutti pronti a ricordarci le contraddizioni dell’America.
Incredibilmente stratificato, Gran Torino propone una strana commistione: non ci si aspettava di ridere, e invece, a tratti, salta fuori la commedia, come se in quello che molti hanno già additato come appunto una sorta di testamento, si intravedesse una certa voglia di leggerezza (vedi gli esilaranti duetti col suo barbiere di fiducia quando Walt vuole insegnare a Thao a parlare e a comportarsi “da uomo”).

Kowalski disprezza tutti esattamente come Callaghan: negri, ebrei, messicani, cinesi ecc., ne farebbe un bel mucchio in nome di un principio che si basa su un’astratta idea di razza e nazione, sulla rabbia e l’odio dell’ignoranza, sull’idea di proteggere il proprio “territorio”.
Gran Torino è soprattutto l’epica di una nazione: in un bel testo del 1983, Norman Mailer riconosceva nei film di Clint «una filosofia nazionale, un'operosa e sottile filosofia americana di tutti i giorni».

La sua grandezza consiste nel saper elaborare il senso del tragico, la veggente parabola della crisi della Nazione, dell’ideale di una civiltà che coincide con il sogno americano, attraverso la figura straordinaria del reduce Kowalski, titanico nella sconfitta e nella resurrezione. Come fosse il completamento del Frankie Dunn di Million Dollar Baby, anche Kowalski simboleggia la figura del “Padre” perduto, tipica della recente letteratura americana, ma allo stesso tempo anche la necessità di vivere questa stessa condizione putativa per poter dare un senso alla propria esistenza.


Si tratta dunque di un film dolentemente politico, dove l’aggettivo è da intendere in un senso più profondo e forte. Da Potere assoluto (1997) fino a quest’ultimo, ciò che viene messo in discussione è l’idea di una struttura, di una sicurezza, di una certezza, l’idea di una nazione che invece di esser forte e invulnerabile, ha delle fondamenta fragili immerse nel sangue. Ha ragione Roy Menarini (Segnocinema) nel paragonare Eastwood a Bob Dylan, Philip Roth e Cormac McCarthy, ultimi mitografi di una Nazione.

La nettezza del suo sguardo cinematografico impressiona e commuove: storia, personaggi, sentimenti, tutti spessi e inossidabili come l’acciaio temperato di una 44 magnum. Cinema allo stato puro, di una forza cristallina che lo rende il solo erede del cinema americano che conta, quello di Ford e Hawks, maestri di un cinema asciutto nel racconto e nella recitazione, innervato dalla lucidità e dal senso del ritmo di Siegel e dalla visone malinconica e poetica di Sergio Leone con cui ha lavorato.

L’identità segnica della sua scrittura è così potente che diviene essa stessa narrazione, diegesi. Ma dietro al reale esibito, le immagini che dovrebbero supportare il mondo del contingente, si dissolvono in qualcos’altro, come se sottolineassero che tutto ciò che accade, accade perché possa accadere qualcos’altro, come se dietro il visibile si annidasse una zona d’ombra che ne altera l’aspetto (un po’ come accadeva in Mezzanotte nel giardino del bene e del male), o un’altra America, il cui futuro è nelle mani dell’ “altro” con gli occhi a mandorla che guida la Gran Torino.
Che diriga o reciti, Clint emana un’aura leggendaria.

Un attore che punta tutto sul proprio segno: il proprio fisico, la propria maschera, il suo essere Uomo con quella faccia da rock che tratteggia la dignità stoica degli uomini veri. E’ lui la tensione morale del grande cinema classico.
“Costituire i corpi e in tal modo restituirci credenza nel mondo, renderci la ragione. E’ da dubitare che il cinema sia sufficiente; ma se il mondo è diventato un brutto cinema, al quale non crediamo più, un vero cinema non potrebbe contribuire a ridarci delle ragioni per credere nel mondo e nei corpi venuti meno?” (Gilles Deleuze)
Laura Iannotta

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