FIRENZE - La suggestiva bicromia del bianco e del nero, che da sola porta il peso della composizione artistica, creando giochi d’ombre e di luci, di pieni e di vuoti, avvolgendo figure e paesaggi in quell’aura ineffabile che rimanda a un tempo ormai leggendario, quando l’arte aveva statura divina.
Suggestioni che rivivono nella raffinata esposizione Il colore dell’ombra. Dalla mostra internazionale del bianco e nero. Acquisti per le gallerie. Firenze, 1914, diretta da Simonella Condemi e curata da Rossella Campana, e organizzata nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti.
Una mostra di studio, che attraverso cento opere fra litografie, incisioni, acqueforti e xilografie, fa luce sia sull’attenzione che all’epoca i musei fiorentini riservavano all’arte contemporanea, sia sul periodo storico-artistico in cui quelle opere vennero concepite. A mantenere alta l’attenzione sull’arte grafica contribuì non poco l’Esposizione internazionale del Bianco e Nero, allestita a Firenze in Via della Colonna, per iniziativa della Società di Belle Arti, ovvero su impulso degli artisti stessi, al di fuori dei circuiti istituzionali, che dalle mostre traevano occasioni di autofinanziamento. Questa, s’inserì nel clima di riscoperta della grafica, la cui strada era stata aperta dalle Biennali veneziane, dirette da Vittorio Pica.
E l’importanza dell’Esposizione fiorentina sta nell’alto numero di opere che i musei cittadini acquistarono per le loro collezioni, dimostrando differenti inclinazioni. Ugo Ojetti e Nello Tarchiani, occupandosi delle acquisizioni per la Galleria d’arte moderna, si orientarono su quegli artisti legati la naturalismo della Macchia, una scuola artistica che, nella Toscana alla vigilia dell’Unità, aveva rivoluzionata la pittura dell’epoca infondendovi un’energia che non scaturisce soltanto da un nuovo uso del colore, bensì anche dalla valenza narrativa e sociale di contenuti affrontati con rinnovata coscienza di uomini del proprio tempo, sensibili al sentire dei loro contemporanei.
I pittori macchiaioli, quasi tutti di umili origini, gente del popolo abituata al pragmatismo, trasposero sulla tela il sentire politico e sociale a loro contemporaneo, dipingendo la realtà del paesaggio agreste e la fatica del lavoro dei campi, portando in primo piano il silenzio, quello stesso che precede la tempesta, e che è attenta riflessione sul presente immaginando però già il futuro. Una riflessione che aprirà la strada alla Metafisica di Morandi e de Chirico, ma intanto arricchisce l’arte italiana di quel realismo che l’accademia ha sempre bandito.
Con differente sensibilità, Corrado Ricci predilige l’avanguardia, quella di Previati, Chini e De Carolis, provenienti dal Simbolismo il primo, e dal Liberty gli ultimi. Differenti modi di guardare all’arte, che riflettevano il clima della Firenze del 1914, una città culturalmente vivace, dove era ancora ben viva la lezione della Macchia, mentre all’orizzonte si cominciavano a intravedere le irrequietezze futuriste, che avevano nel Caffè delle Giubbe Rosse il teatro d’elezioni per riunioni che spesso sfociavano in aperte risse. Uno spaccato della città, ben diversa da quella buontempona del Caffè Michelangiolo, dove Tricca si esibiva con le sue caricature. A ridosso della Prima Guerra Mondiale, infatti, il clima è ben più acceso, e Vociani e Solariani non si risparmiano “gentilezze”. Altri tempi, quando alle crisi si reagiva con l’intelletto, e non con la passività indotta dalla televisione.
Le nove sezioni della mostra affrontano un ampio spettro di tematiche, dal ritratto alla veduta, dai paesaggi urbani ai paesaggi d’acqua, dal mondo onirico al mondo ben più concreto del lavoro quotidiano. È interessante notare come l’attenzione dei direttori museali dell’epoca, almeno fino al 1914, guardasse con maggior attenzione a quegli artisti portatori di un segno artistico legato al naturalismo, nel quale è evidente la lezione della Macchia e dell’Impressionismo francese, ravvisabile, ad esempio, nelle vedute campestri di Antonio Fontanesi, o dell’inglese William Palmer Robins, accanto alle incisioni del fattoriano Anselmo Bucci o del maestro Camille Pissarro. Artisti legati alla tradizione culturale di un’Europa che l’imminente Prima Guerra Mondiale lascerà sconvolta e irriconoscibile.
Ancora sul versante della tradizione, Emilio Mazzoni Zarini regala eleganti signore della buona società in pelliccia e cappello, e delicate vedute veneziane degne di Canaletto. Particolarmente nutrita la pattuglia di artisti dell’Europa del Nord, con le loro solenni vedute cittadine; Ernst Walter Zeising in Vecchia strada (1908), immortala una tipica via di una cittadina tedesca, ritagliata fra alte e severe case dai tetti aguzzi, e adorne di balconi; un tratto, il suo, che risente della scuola di Albrecht Dürer, in linea con l’olandese Marten Van Der Loo, mentre la russa Angelina Beloff, nell’acquaforte Via a Bruges, risente della finezza di tocco di Van Gogh.
L’avanguardia di Adolfo De Carolis, cui si affianca Ettore Di Giorgio, si esplica nei ritratti e negli ex libris, caratterizzati da un segno dal sapore magniloquente, ingenuamente in linea con un’Italia alle prese con le prime avventure coloniali, e che si affaccia al consesso delle Nazioni europee. Più suggestivo il Ritratto di Rodin, eseguito da Eugène Carrière nel 1897, immerso in un’aura onirica (che riecheggia la sua produzione scultorea), suggerita dalla lunga barba fluttuante sul fondo scuro. Ancora in chiave surreale, dalla sezione Incubi e sogni, affascinano le Caravelle di Francesco Chiappelli, che richiama le wagneriane atmosfere del Vascello fantasma.
In chiusura, l’interessante sezione dedicata al lavoro, per spiegare la quale occorre un nuovo un passo indietro, agli anni della Macchia, quando quello scapigliato gruppo di mazziniani repubblicani, volle trasfondere sulla tela scene di vita contadina, quale era la quotidianità dell’Italia dell’epoca, con le strade percorse da “barrocci” e cavalli, i campi silenziosi sfiorati dall’aratro, paesaggi che ricordano, per analogia, quelli cantati da Carducci o Pascoli; paesaggi dove pulsa la vita, raccontati non più con sentimento romantico, ma con forte realismo, quello stesso che in letteratura sta muovendo i primi passi con Verga e Capuana.
Ma nel 1914, il mondo rurale è ormai affiancato da quello operaio, e l’Europa che sta sprofondando nel baratro della guerra ha già conosciute le agitazioni sindacali. Lo sciopero della Kollwitz (1897), ben esprime il clima di disagio delle masse operaie, i cui unici strumenti di lotta sono lo sciopero, appunto, e i sampietrini del selciato, lanciati da mani scarne e ingiallite. Un’esistenza grama, la rassegnazione per la quale si coglie nei volti di Théophile Alexandre Steinlen, che ne L’uscita degli operai, ritrae una lunga processione di lavoratori al ritorno dalla lunga giornata di lavoro.
Attraverso la meno frequentata forma dell’arte grafica, la mostra ricostruisce il clima creativo e sociale dell’Europa alla vigilia della Grande Guerra, nella quale molti artisti si arruoleranno volontari, e qualcuno di loro perirà in trincea. Per quelli che tornarono, la situazione era profondamente cambiata. L’avventura dell’arte grafica a Firenze ebbe un ultimo momento di gloria nel 1927, con una grande mostra realizzata al Parterre. Poi, gli anni del regime fascista videro relegata in secondo piano questa forma espressiva che invece è stata determinante per lo sviluppo dell’arte toscana e italiana del secondo Novecento, da Viani a marini, a De Chirico e Morandi. Ma questa, è un’altra storia.
Nella foto: Caravelle, di Francesco Chiappelli