PRATO - L’amore problematico e contraddittorio, persino ridicolo, in una Parigi fredda e distante, contraddistinta da un grigiore che si avverte in ogni sfumatura delle parole. Dopo il debutto l’estate scorsa a Spoleto, Adriana Asti approda al Metastasio nel doppio La voce umana/Il bell’indifferente, uno spettacolo dall’intenso sapore retrò, spigoloso come certe sculture di Giacometti, e calato in un esistenzialismo sdrucito, di vite consumate, da una parte nell’illusione di creare un rapporto, e dall’altra nell’altrettanto illusoria certezza di poter dominare all’infinito.
Uno scontro ideale uomo/donna, con il sesso forte relegato sullo sfondo, ma ugualmente presente in modo insinuante, quasi offensivo e spietato. La pièce può essere intesa anche come analisi sociale della sottomissione cui, negli anni Trenta del secolo scorso, era costretta la donna. Costituito da due monologhi, lo spettacolo vede Adriana Asti nelle vesti di una matura signora alle prese con storie sentimentali difficili, e diretta con maestria da Benoît Jacquot che firma una regia impalpabile ma presente, nella quale è evidente l’influsso cinematografico, e dove la lentezza “alla Antonioni” scandisce un ritmo ora struggente ora sardonico. Ne La voce umana, un’ultima telefonata per dirsi addio diviene, almeno per la protagonista, occasione per una rapida retrospettiva su una relazione dalla quale non avrebbe mai dovuto attendersi niente di concreto, ma che invece l’ha toccata profondamente.
La donna è sola in camera, e parla al telefono; all’altro capo, l’uomo che l’ha lasciata per un’altra, e del quale appunto adesso può sentire soltanto la voce. Una conversazione che è un sussurro, a tratti inframezzato da blande alzate di tono, subito ammansite dalla paura che all’altro capo si interrompa la telefonata. Nel tentativo, senza speranza e a suo modo commovente, di riallacciare la relazione, la donna giunge all’umiliazione di sé stessa, persino attraverso il racconto di un tentato suicidio.
L’anima messa a nudo, o forse in posa, alla disperata, patetica ricerca di un’attenzione che ormai si percepisce lontana. Ad appesantire l’atmosfera, la precarietà della telefonata; a causa del basso livello tecnico del servizio telefonico parigino dell’epoca, la conversazione viene interrotta più volte, per la disperazione della donna, che avverte la minacciosità della cornetta muta, e si sente perduta davanti a un silenzio angoscioso quanto il buio. Il telefono; questo comune accessorio, con la sua presenza, diventa lo strumento concreto e il simbolo tragico dell'impotenza, il canale in cui la sincerità delle frasi mozze e l'ipocrisia intuibile nei silenzi e nelle reazioni interlocutorie si scontrano, si mescolano, ne escono strozzati.
Un abbandono difficile da accettare, fino alla rassegnazione del finale, con la donna che a prezzo di una terribile violenza su sé stessa, incita l’ormai ex amante a chiudere la conversazione, sussurrando “ti amo” a una cornetta ormai muta. Adriana Asti porta sul palco la struggente poesia dell’esistenza, sospesa fra il comico e il tragico, e intesa nella sua dimensione più intima, ovvero quella paura della solitudine e il conseguente bisogno di contatto umano, che si è disposti ad acquistare a qualsiasi prezzo. Fra un monologo e l’altro, nessun intervallo; appena il tempo di modificare a vista la scena.
L’attrice scendere dal palcoscenico, assiste al cambio degli arredi, e risale non appena terminato il riallestimento. Nella seconda parte, dal titolo Il bell’indifferente, la poesia si sporca di fango, con il linguaggio che scivola a tratti nella volgarità, specchio di una sofferenza interiore non più reprimibile. Invaghita di Émile, un uomo assai più giovane di lei - uno scioperato rozzo e poco socievole, a metà tra un fort des Halles e un Apache di Belleville -, la donna si lascia consumare dalla gelosia e dall’umiliazione pur di averlo accanto a sé.
L’uomo rientra con indolenza da un’avventura sessuale di basso rango, si sdraia scompostamente sul letto non prestando la benché minima attenzione alle parole della matura amante, e poi esce di nuovo, il tutto senza mai pronunciare una sola parola. Di fronte a una simile situazione, Adriana Asti interpreta una donna che è la parodia di sé stessa, vittima del peso psicologico di un amore ingrato, giocato su lealtà e sopportazione ricambiate con menzogne e disprezzo. La forzata ironia con la quale vorrebbe attaccare Émile, è in realtà specchio del suo fallimento di donna. La bella scenografia ricostruisce fedelmente l’atmosfera sordida degli alberghetti di periferia, di quelli che pullulano nei dintorni della Gare du Nord o nei sobborghi attorno a Rue d’Alesia; la scena si volge in una camera dalla cui ampia finestra entrano le monotone luci al neon che rischiarano la notte parigina.
Uniche suppellettili, oltre al letto, un tavolo e una sedia. Il luogo ideale dove passare lunghe ora in compagnia della propria solitudine. Spettacolo interessante, la cui riflessione sulla condizione della donna è facilmente attualizzabile, anche se oggi alla sottomissione si è purtroppo affiancata la violenza. Alla chiusura del sipario, calorosi e meritati applausi, come già a Spoleto, per la magistrale prova di Adriana Asti, che dà voce al dolore di un’intera generazione malata di solitudine. Niccolò Lucarelli