PRATO - Seconda reprise al Teatro Metastasio per La Cantatrice calva di Eugène Ionesco, nell’allestimento che fu di Massimo Castri, impegnato con uno dei testi più graffianti del teatro d’avanguardia, nonché, quest’anno, doveroso omaggio alla memoria del regista, del quale fu appunto l’ultimo allestimento. Con una pseudo-protagonista evocata nel titolo ma che non appare mai, soltanto sfiorata da un incoerente scambio di battute nel finale, e un allestimento elegante per una pièce che ha segnato il Novecento, La Cantatrice calva fa luce con amara ironia su problematiche sociali delle quali spesso si preferisce tacere.
Il conformismo borghese è il nucleo di un assurdo quotidiano che rende vani i rapporti fra le persone, l’involucro che nasconde le incomprensioni e i conflitti familiari, come ben emerge già dalla prima scena, nella quale assistiamo a un dialogo fra i coniugi Smith. La regia incentra la recitazione degli attori, Banci e Malinverno nella fattispecie, sugli accenti e sulle pause, conferendo anche alle parole più innocue un carattere polemico, e facendo comprendere il livore che aleggia fra i due coniugi, all’apparenza tranquilli borghesi: seguendo con attenzione questo dialogo, scopriamo il disprezzo di una moglie per il marito dedito all’alcool e perso in un impiego poco remunerativo.
L’impianto registico si regge su un interessante gioco creativo di pieni e di vuoti, che ricordano concettualmente l’astrattismo cromatico di Malevic o Mondrian. Un gioco magistralmente interpretato da Banci e Malinverno, che con grande efficacia trasportano sul palcoscenico le isterie e le piccolezze di una borghesia in pieno disfacimento. Suggestiva la scenografia, che riproduce un lussuoso salotto borghese della fine dell’Ottocento, modificando quella che fu l’impostazione di Ionesco, il quale, da parte sua, ambientò la pièce in un neutro interno borghese della metà del XX Secolo, quando appunto la pièce venne scritta (1950).
Castri invece scelse l’Inghilterra vittoriana, simbolo inequivocabile di una società conformista, e non scevra di eccentricità che ancora oggi fanno sorridere. Una trasposizione temporale che a modesto parere di chi scrive, si presta a un’interpretazione allegorica; con il Positivismo arrabbiato dei decenni 1870-90, si può ravvisare la stessa avidità di scienza e tecnologia che appassionano, nel bene e nel male, anche la società dei nostri giorni. E la critica sociale che ne deriva, oggi come sul finire dell’Ottocento - ma allora espressa attraverso il Decadentismo -, pone l’accento sulla deriva alienata cui può andare incontro una società eccessivamente condizionata dalla scienza, e dalla tecnologia in particolare.
La perdita della capacità di comunicare, la semplificazione del linguaggio, - che si esprime solo per oggetti e non per concetti -, segna inesorabilmente un regresso della civiltà. E nel 1950 cominciava ad affermarsi in Europa anche la cosiddetta società dei consumi, il cui linguaggio di slogan e frasi fatte, conformato sui ritmi del mercato, è divenuto strumento totalitario della nostra epoca, assuefatta alla suggestione della parola e lontana dal suo significato. Il messaggio che Ionesco volle lanciare, e che Castri riprese e attualizzò con efficacia, non è tanto un’accusa contro il conformismo in sé stesso, ma contro il conformismo in quanto sintomo di mancanza di pensiero speculativo individuale, che si traduce in schiavitù, abbrutimento, indifferenza.
Come si evince dal dialogo fra i coniugi Martin, appena introdotti nel salotto degli Smith, la vita è una questione di coincidenze che scivolano sull’individuo senza che questo quasi ne prenda coscienza, e subendole passivamente. Per citare Lennon, “la vita è ciò che ti accade mentre sei occupato in altre faccende”. In un’Europa segnata dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, e dove la società di massa che muoveva i primi passi stava soppiantando definitivamente gli ormai millenari usi e costumi a misura d’uomo della civiltà contadina, Ionesco supera l’approccio romantico che Nietzsche e Camus assumevano verso l’assurdo - convinti che compito del filosofo fosse non cedere al nichilismo e infondere coraggio alla società -, e acuisce il conflitto fra l’irragionevole silenzio del mondo, e la ricerca di chiarezza dell’uomo.
La prospettiva dell’assurdo si sposta, poiché diventa una problematica interna all’uomo, dal momento che i personaggi di Ionesco rinunciano alla chiarezza, incapaci come sono di cogliere e correggere le stonature dell’irrazionale e del paradossale. E la vita e la morte, in una società dove tutti, uomini e donne, sono indistinguibili - e portano anche lo stesso nome, quello sciocco e quasi irritante di Bobby -, perdono i loro confini temporali per diventare oggetto di luoghi comuni che celano, però, vaghe inquietudini.
Un richiamo a Sant’Agostino e alla “disastrosa morte”, così come, di nuovo, al Gogol’ de Le anime morte, fra le cui pagine la scomparsa di un (non) individuo diviene oggetto di compravendita, disprezzo, ironia, pettegolezzo. L’equivoco che si crea a proposito di Bobby - “ma di quale Bobby stai parlando?”, urla Mr. Smith -, oppure i coniugi Martin - Langone e Mascagni in stato di grazia -, che sembrano venire da una lunga quanto strana amnesia, oltre a suscitare le risate del pubblico, sono pungenti considerazioni sulla difficoltà nel riconoscere e distinguere gli altri, persi come siamo in prigioni mentali create dall’imbecillità.
Imbecillità suggerita anche dalla dizione degli attori, giocata su una voluta sovra-recitazione, che ricrea l’effetto di quel linguaggio convenzionale e stereotipato, di chi, oggi come allora, non ha niente da dire né da pensare. E infatti, la pièce si chiude con una cacofonica scena-madre, dove gli attori gridano frasi fatte e strampalati proverbi coniati sull’ispirazione del momento, una scena con la quale Ionesco attaccava, già nel 1950, un mondo che stava diventando troppo caotico e alienante, dove la nascente società industrializzata allontanava le masse dal pensiero critico, dalla coscienza del sé, da tutta una serie di rapporti umani che sin lì avevano costituito un punto di riferimento.
Nella scena finale, il dramma emerge in tutta la sua amarezza sociologica: in quella che sembra essere la copia esatta della scena iniziale, si assiste a uno scambio d’identità:quelli che prima erano i coniugi Martin, sono diventati gli Smith. Come a dire che nella società di massa, anche la personalità è qualcosa d’intercambiabile. Banci, Langone, Malinverno e Mascagni danno vita a quattro individui squisitamente vittoriani, permeati di stravaganze e manie portate sino al paradosso, mentre Borchi è un compunto quanto ottuso capitano dei pompieri, ligio a un dovere eseguito in modo a dir poco scombinato. Alla chiusura del sipario, lunghi e meritati applausi per una pièce valida ancora oggi, e forse più di allora, in una società atrofizzata e infantilizzata dalla televisione, dai gadget tecnologici, e dai circhi sportivi.
di Niccolò Lucarelli