Ha saputo insegnare un’etica, un linguaggio, la ricerca del senso del lavoro sul palcoscenico. Questa, secondo Marco Plini, è l’eredità più importante che Massimo Castri ha lasciata al teatro italiano. Così ha voluto ricordarlo colui che per tanti anni suo assistente di scena, nel corso del convegno che si è tenuto al Teatro Metastasio nel pomeriggio di sabato. Un’iniziativa, a un anno dalla scomparsa del grande regista cortonese, voluta dal teatro pratese che divenne Stabile proprio grazie a lui, che ne fu direttore dal 1994 al 2000.
uest’impresa dà la misura della sua fede nel teatro pubblico, inteso come servizio civile e spazio di dibattito democratico, aperto a tutte le correnti. Il teatro pubblico è una responsabilità che pochi si assumono, e Castri denunciava gli sprechi e le intromissioni politiche, sapeva distinguere fra cos’era diventato il teatro pubblico, e cosa avrebbe dovuto essere, memore dello spirito con cui Strehler e Grassi nel 1947 fondarono il Piccolo. Non si è mai risparmiato nel fare teatro, con grande generosità umana e artistica.
Per questo è ricordato come un importante protagonista della storia del teatro italiano degli ultimi 35 anni Si è dedicato anche all'insegnamento presso la Scuola d'arte drammatica Paolo Grassi di Milano e presso l'Atelier della Costa Ovest in Toscana. Dopo il debutto come attore nel 1967, al Piccolo Teatro di Milano, nella messinscena di Unterdenlinden di Roberto Roversi, l’anno seguente entra a far parte della Comunità Teatrale dell'Emilia-Romagna dove lavora in spettacoli con la regia di Giancarlo Cobelli (del quale in seguito sarà regista assistente) e Roberto Guicciardini.
Per il critico e saggista Guido Davico Bonino, Castri fu un esempio di uomo di teatro estremamente colto, e tale si rivelò sin dall’esordio, quando, alla casa editrice Einaudi, propose la sua tesi laurea per la pubblicazione. Quel suo Per un teatro politico. Piscator, Brecht, Artaud, dava la cifra di un profondo conoscitore del teatro contemporaneo, pieno com’era di proposte critiche elaborate con coerenza e cognizione. Il testo fu pubblicato con la benedizione del germanista Cases, e le recensioni che ne vennero scritte in seguirono, furono estremamente favorevoli.
Prima di essere un regista, Castri era un critico, che sapeva interpretare le varie teorie dell’approccio teatrale; in più, seppe demistificare gli aspetti borghesi di due autori considerati antiborghesi, quali Ibsen e Pirandello. Come nota il critico Gianfranco Capitta, dopo Visconti e Strehler, la grande regia italiana è quella di Castri e Ronconi, il quale ha riprese molte delle intuizioni del primo. Ad esempio, anch’egli ha sfatata la leggenda di Pirandello quale drammaturgo di posa. Ma già Castri, nelle sue sette regie pirandelliane - fra cui Vestire gli ignudi, 1976; La vita che ti diedi, 1978; Il piacere dell'onestà, 1984 -, aveva mostrati i fantasmi e la realtà oscura che stanno dietro i testi del drammaturgo agrigentino.
In un certo senso, Castri riscriveva i classici, grazie alla sua capacità creativa che lo portava a destrutturare e ricostruire il testo, un lavoro attento condotto in collaborazione con Ettore Caprioli, un lavoro animato dalla volontà di arrivare al senso della parola e delle cose. Il suo teatro è un viaggio nell’indefinito, per illuminarlo e raccontarlo al pubblico. Il buio che esplora è l’infelicità, il senso triste del tempo che scorre, la ricerca ossessiva di qualcosa. La regia diviene una visione del mondo. Maria Grazia Gregori ricorda il lato timido, misogino e vagamente crudele di Castri regista e uomo, che sulla scena sapeva essere attraente e respingente insieme, e la sua misoginia emerge anche nella violenza che subivano le sue protagoniste.
Un teatro, il suo, che guardava la vita, il modo di essere di ognuno dentro la società, e per un tocco autobiografico forse non voluto, rivelava anche il suo stesso modo di essere. E sulla scena, tallonava l’attore durante le prove, costringendolo a essere consapevole fino in fondo della creazione registica. Accanto al regista, c’era il drammaturgo scenico, che creava per gli attori. Il periodo pratese fu creativamente importante, e di quegli anni si ricordano le regie della goldoniana Trilogia della villeggiatura, Fede speranza carità dell’austriaco von Horvath, L’orgia di Pasolini, e ancora i classici Ifigenia, e Oreste, spettacoli fra loro molto diversi, ma accomunati da grande profondità indagatrice del mistero dell’uomo.
Opere che rivivono nella mostra fotografica Gli anni di Prato, 1994-2000, allestita nel foyer del Teatro Metastasio e visitabile gratuitamente fino all’8 dicembre prossimo. di Niccolò Lucarelli