PRATO- Prosegue la stagione del Teatro Metastasio, con la reprise di Giochi di famiglia, un testo fra i più interessanti del teatro contemporaneo, che affronta la drammaticità della guerra vista con gli occhi dei bambini, le vittime più incolpevoli e più indifese. L’autrice serba Biljana Serbljanovic scava nella sua stessa esperienza, e dopo il diario da Belgrado, che sulle pagine di Repubblica raccontava la vita quotidiana nella città martoriata dalla guerra civile, con questo spettacolo va oltre e propone intense riflessioni sulle conseguenze, sulla paradossale perdita delle proprie radici nella terra natia, che diviene luogo freddo e ostile, dove ogni passo è foriero di sofferenze e dolorose memorie.
Una terra che respinge, poiché ormai niente resta della vita di prima, quel prima che appunto aveva una sua storia e una sua dignità. L’attenta regia di Paolo Magelli dà vita a uno spettacolo poetico e violento insieme, che comunica una tangibile, struggente tristezza, emanata dai protagonisti bambini, colti nel disperato tentativo di vivere. Nel grande spazio del Fabbricone, appositamente modificato per lo spettacolo, viene ricostruita una dimensione urbana di devastata periferia, dove è possibile percepire il sibilo del vento fra le macerie, e la polvere che acceca lo sguardo.
In mezzo, bambini smarriti che hanno perso il contatto con l’innocenza dell’infanzia, la cui anima è precocemente invecchiata, indurita dalle privazioni, e impegnata a sopravvivere con scaltrezza e crudeltà. Giocano a fare la famiglia, come appunto suggerisce il titolo: Vojin il padre, Milena la madre, Andrija il figlio. Ma gli unici rapporti che conoscono, sono quelli venati di violenza e sopraffazione. Come in Germania anno zero, il capolavoro neorealista di Rossellini, anche qui ci si confronta con un’umanità abbrutita dalla guerra, incapace di provare sentimenti, cosa che appare ancora più spaventosa se consideriamo che nello spettacolo si parla di bambini.
Dal loro modo di giocare, che imita la vita adulta, si comprende come abbiano assorbita, senza capirla, la crudeltà del socialismo reale, che vede il libero pensiero come elemento di disturbo, e lo schiaccia con ogni mezzo. A questo si aggiunge la guerra civile che ne seguì, un clima vissuto dai bambini senza filtri né difese, che diviene per loro la normalità, sulla quale appunto si può ridere e giocare. E opprimere il diverso, è quindi un modo per difendere il proprio territorio e per sopravvivere.
Quando, dal nulla, spunta Nadezda, orfana di guerra, subito viene aggredita e insultata con violenza, e trattata alla stregua di un cane. La scena, al limite della disperata comicità, fa percepire la devastazione che la guerra ha lasciata nell’animo dei bambini, che nei loro giochi parlano, senza capirle, di economia e di letteratura, in un commovente tentativo di afferrare qualcosa di quella vita che sembra essere loro sfuggita. Anche queste, scene comiche che sfiorano l’assurdo, espediente drammaturgico per comunicare con efficacia quella disperazione che combatte contro le macerie di una società. L’impostazione registica infonde violenza e profondità drammatica allo spettacolo, curando in modo particolare la dizione e la gestualità degli attori, che passano con rapidità dal comico al tragico, a simboleggiare quell’instabilità emotiva di chi vive senza affetti, senza certezze, senza pace.
Valentina Banci è Milena, bambina scaltra e iperattiva, consumata da una febbre di vita che però non trova modo di esprimere. Si sente ormai una donna, anzi una bambina vecchia, e cova assurdi sogni di maternità. Mauro Malinverno interpreta un Vojin all’apparenza iracondo e autoritario, in realtà debole e impaurito, che cerca rifugio in pose e atteggiamenti adulti. Francesco Borchi, nella parte del figlio Andrija, è il personaggio cardine dello spettacolo, colui che alla fine, comprende l’impossibilità di vivere in un Paese distrutto sotto ogni punto di vista, e ormai adolescente, sceglie, seppur a malincuore, la strada dell’emigrazione verso la Norvegia.
Magistrale prova di Elisa Langone, che dà vita a una struggente Nadezda, la bambina orfana, rimasta così traumatizzata dalla sofferenza, da essere incapace di parlare. È lei la sola veramente buona, la sola rimasta ancora bambina, aliena dalla malvagità verso gli altri, e che mai si ribella contro le angherie che subisce. Senza requie, si rotola sul palcoscenico e getta intorno sguardi ora impauriti, ora supplicanti, esprimendo profonda maturità drammatica. A tutti loro, fa da contrasto l’operaio interpretato da Fabio Mascagni, che è metafora di quella generazione adulta sufficientemente attrezzata per affrontare quella realtà da essa stessa creata, ma non abbastanza coerente da voler proteggere che invece attrezzato non è, ovvero i bambini. Oltre che alla recitazione, la regia si affida alla simbologia iconografica, ad esempio quando su un grande schermo viene proiettata l’immagine di un cimitero di guerra della ex Jugoslavia, e il modellino di un treno merci - che ricorda quelli delle deportazioni naziste -, corre lungo i binari al limitare del palcoscenico.
Visivamente, la regia amplia la riflessione dell’autrice, dalla dimensione della ex Jugoslavia a quella di tutte le guerre che hanno sconvolta l’umanità, usando la metonimia di quella che è stata la più terribile, ovvero il secondo conflitto mondiale. Mentre scorrono le immagini, sulla scena si canta una canzone il cui linguaggio è inventato, a simboleggiare il linguaggio infantile, e che nella musicalità richiama le lingue slave. Una canzone il cui non-linguaggio è la voce di chi non ha voce per far valere i propri diritti.
Importanti anche, a livello simbolico, quelle scene oniriche di assassinio dei genitori, che traendo spunto dalla mitologia greca, rappresentano oggi un atto d’accusa contro quel mondo adulto che appare sullo sfondo con indifferenza, rappresentato da quell’operaio, spaesato ma intento al suo lavoro, che appare assurdo in una realtà del genere. Sin dal prologo, è lui a spiegare al pubblico che quella città, di cui non sappiamo il nome, non è un posto per bambini. Nessuno ha il tempo di occuparsene, perché ogni adulto è impegnato a salvare sé stesso.
Nella pièce si parla della guerra in senso stretto quale tragedia umana, ma l’estro poetico e amaro di Paolo Magelli estende la riflessione di Biljana Srbljanovic, e la arricchisce con evidenti richiami alla situazione contemporanea italiana. Anche nel nostro Paese è in atto una guerra, contro la corruzione, l’avidità, il qualunquismo, l’ignoranza, che stanno facendo del Paese un cimitero intellettuale e morale, dove le giovani generazioni non trovano possibilità d’espressione e realizzazione.
Guerra è sempre. Lo afferma Mordo Nahum, lo strano greco amico di Primo Levi, descritto nelle pagine de La tregua. E guerra è oggi in Italia, quell’Italia gerontocratica che non riesce o non vuole, garantire un futuro ai giovani e dove la distanza fra le generazioni è più che mai acuita. Il simbolico assassinio dei genitori va letto anche in questo senso, ovvero come atto d’accusa nei confronti di un Paese che si è disinteressato dei giovani. Alla fine, entusiasti e meritati applausi per uno spettacolo dalla profonda maturità contemporanea. di Niccolò Lucarelli