Tiflis, giugno 1962 - Andando in Georgia, fate attenzione a tre cose: a non dir male di Stalin, a scegliere bene il damadà, a evitare, possibilmente, una vostra esibizione nel kartulì.
Fino a che soggiornate nelle altre repubbliche sovietiche, visitate grandi città, parlate con persone importanti o gente qualunque, discutete del presente o del passato, di lavoro o di economia, andate nelle fabbriche, negli ospedali, nei teatri, può darsi che non vi capiti mai di sentir parlare di Stalin, di vederne l'immagine.
Proprio come se non fosse mai esistito, come se almeno il novanta per cento di quello che vedete non fosse opera sua, del suo governo, diciamo del suo periodo.
Ed eccomi a Tbilisi - ovvero a Tiflis - nella capitale della repubblica georgiana, tra il Mar Nero e il Mar Caspio, a un estremo limite dell'immenso territorio sovietico, vicino ai confini della Turchia e dell'Iran, dove molte cose sono diverse. Ed eccomi a Tbilisi dove entro nell'albergo e mi trovo di fronte uno Stalin tranquillamente seduto in poltrona, uno Stalin paterno che mi accoglie con un sorriso di bronzo dorato.
Lui è nato qui vicino, a Gori, e nessuno lo ha dimenticato.
Ho ancora le valige chiuse, la macchina fotografica è dentro (perché negli aeroporti l'obiettivo è proibito come le pistole corte), devo rinunziare a una documentazione che lì per lì mi sembra importante. La mattina dopo, quando mi sveglio e scendo a basso, mi mangio le mani. Non si sa come abbiano fatto, ma la statua non c'è più. Il suo posto, nella lunga parete, è stato preso da un grande specchio incorniciato di legno scuro.
Devono aver lavorato tutta la notte.
Una faccenda davvero curiosa perché poi esco per le strade di Tbilisi e faccio una indigestione di Stalin. Questa è la sua patria e il legittimo orgoglio nazionalistico l'ha avuta vinta sulle decisioni del congresso, sulla battaglia contro il culto della personalità. (Giorgio Batini)
È solo uno degli interessanti e curiosi episodi riportati nello storico servizio realizzato tra il giugno e il luglio 1962 per «La Nazione» da un grande inviato speciale: l'allora neanche quarantenne Giorgio Batini.
Dopo aver diretto con autorevolezza la cronaca di Firenze, esser divenuto una delle più illustri firme del giornale, aver vinto prestigiosi premi e firmato oltre cinquanta libri, oggi Giorgio Batini raccoglie in Do svidánija.
Memorie di un viaggio nella Russia di Kruscev (Polistampa, pp. 168, euro 14) tutti gli articoli di quel reportage per raccontare la vita dei russi: cosa studiavano, come lavoravano in fabbriche e fattorie collettive, come si divertivano, qual'era il ruolo delle donne. Da quegli anni la Russia ha subito trasformazioni enormi, inimmaginabili, ma il fascino e lo straordinario interesse di queste pagine restano immutati. Il segreto sta anche nel tipo d'inchiesta scelta: un viaggio nella vita e nel costume della Russia delle campagne e delle città.
Il libro è illustrato da tante originalissime foto di Batini, quasi tutte inedite, e rappresenta un prezioso documento della vita della gente comune (studenti e operai, contadini e ferrovieri, massaie e artisti di Mosca, Kiev, Leningrado, Tiflis) di un paese rimasto lungamente isolato dal mondo e quindi sconosciuto ai più. Già in quell'estate del '62 si cominciavano ad avvertire certi fermenti sociali, economici, perfino religiosi che avrebbero infine minato le basi, ritenute allora solidissime, del più vasto Stato del mondo.
La cosa più sorprendente è come (27 anni prima della caduta del muro!) cinque giornalisti italiani (Angelo Aver, Giorgio Batini, Taddeo Conca, Nerino Rossi e Tino Neirotti) ricevessero da un giorno a un altro un permesso, anzi un invito, non a soggiornare a Mosca, dove erano accolte in genere le delegazioni di Paesi amici, ma a visitare tutti i luoghi dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche che volessero: quello che fino ad allora per anni ogni organizzazione giornalistica europea aveva desiderato e richiesto senza successo.
"Non saprei dire (credo di non averlo mai saputo) - racconta oggi Batini - come fosse avvenuta la scelta dei singoli componenti della 'delegazia'. Probabilmente fu guidata dal criterio di ottenere un'equilibrata rappresentanza politica: un giornalista dell'Unità e uno di Paese Sera per la stampa di area comunista, uno del Popolo organo democristiano, uno del grande giornale torinese La Stampa, uno del giornale indipendente La Nazione di Firenze, e cioè il sottoscritto, che non si era mai occupato di politica.
Andò tutto nel migliore dei modi: a Mosca - ricorda poi - fummo accolti con grande cortesia, accompagnati in uno degli alberghi migliori (voglio ricordare che ognuno di noi fu sempre trattato come ospite e non dovette mai tirar fuori un rublo), presentati a importanti colleghi della Prava, della Izvestia e di molti altri giornali. Se noi eravamo curiosi di conoscere tutto quello che riguardava il loro grande Paese, i colleghi sovietici lo erano almeno altrettanto di conoscere il nostro modo di vivere, i nostri guadagni, la libertà che avevamo di esprimere le nostre opinioni ed anche i piaceri che ci potevamo permettere.
La dolce vita di Fellini, che da noi aveva provocato sdegnose proteste di associazioni cattoliche, piaceva invece moltissimo ai russi, facendo intravedere svaghi mai ipotizzati e grande era la curiosità su Marcello Mastroianni, Federico Fellini ma soprattutto su Anita Ekberg e Anouk Aimée".
Antonio Pagliai