FIRENZE- La bizzarria e la tenerezza dell’umanità viste attraverso una vita di coppia apparentemente scombinata, votata a un imprescindibile buonumore come chiave per apprezzare, o sopportare, l’altro. Piero Maccarinelli riprende, in prima nazionale al Teatro della Pergola, Ti ho sposato per allegria, uno dei testi più acuti e contemporanei di Natalia Ginzburg, all’apparenza spensierato e di maniera, dove però l’autrice inserisce acute intuizioni e considerazioni di carattere sociale e antropologico, sulle donne colte all’inizio del movimento femminista in Italia, e le conseguenze che questo movimento avrà sul matrimonio.
Con tocco garbato, Maccarinelli indaga le sfumature della personalità femminile alle prese con l’emancipazione della metà degli anni Sessanta; l’Italia del miracolo economico attrae nelle grandi città sfavillanti di luci tante ragazze dalle campagne in cerca di un avvenire, il benessere che sta cominciando a diffondersi allenta quelli che sono stati sino ad ora i severi costumi di una società prevalentemente rurale. Giuliana, interpretata da Chiara Francini, è una ragazza della provincia romagnola giunta a Roma in cerca di fortuna e un buon matrimonio, che riesce a combinare con Pietro, avvocato e benestante, che dopo averla conosciuta a una festa, si lascia travolgere, se non proprio dalla passione, comunque da un’affettuosa curiosità per questa esuberante ragazza dall’infanzia povera ma dalla sconfinata fiducia nell’avvenire.
Nella sua storia riecheggia l’atmosfera di La fortuna di essere donna, interessante pellicola diretta da Blasetti nel ‘56 e interpretata dalla magistrale coppia Loren-Mastroianni. Emanuele Salce è Pietro, “marito per caso” non ancora sicuro se travolto dalla passione o da qualcos’altro. La vera protagonista della pièce è la donna, vista attraverso vari personaggi che esprimono vari aspetti caratteriali: da una parte, Elena e Topazia, due amiche di Giuliana che non compaiono in scena, ma che conosciamo attraverso i racconti della protagonista; la prima, timida e pessimista per conseguenza, mette in guardia l’amica dalla “pericolosità” degli uomini.
Topazia è invece la moglie, o amante, di Manolo, ambiguo scrittore cui Giuliana si lega per breve tempo, uomo fragile incapace di provare autentico trasporto per le donne. Topazia, ragazza di vita che, se ancora mezzo secolo prima sarebbe finita come una delle tante Signore delle Camelie, adesso gode degli ultimi sfolgorii della Dolce Vita agonizzante. L’amicizia che le lega dà la misura della nuova consapevolezza cui è giunta la donna in quella prima metà degli anni Sessanta. A lato della storia, altre donne: Giulia Weber è Vittoria, la giovane cameriera emancipata, e Valentina Virando interpreta Ginestra, la sorella di Pietro; entrambe ragazze moderne, allegre, interessate alla moda, alle passeggiate, agli svaghi.
Loro contraltare, Anita Bartolucci - la madre di Pietro -, donna all’antica che non approva il matrimonio civile del figlio con Giuliana, ma che tuttavia, dopo un invito a pranzo, sembra lasciarsi conquistare dalla nuora. Punto di forza della pièce, quella solidarietà fra donne che si concretizza nelle confidenze fra Giuliana e le amiche, o la cameriera Vittoria, dove il racconto diviene occasione di conoscenza, di sfogo, di consiglio, o semplicemente un modo per fare una risata, in omaggio a quella “leggerezza” femminile che non è la chiave peggiore per affrontare l’esistenza.
Una leggerezza che sembra contagiare lo stesso Pietro, che non esita a sposare Giuliana appena conosciuta. Un passo affrettato? Forse no, poiché i due hanno la capacità di ironizzare su sé stessi, sui loro difetti e le loro mire, esorcizzando in tal modo lo spettro della separazione. Un matrimonio che non è caratterizzato da amore profondo - un concetto che la seconda metà del Novecento sembra aver abolito -, bensì è basato sulla praticità e il più “semplice” affetto; ci si sposa per allegria, ovvero ci si sposa per evitare la solitudine, per trovare quella sicurezza che altrimenti mancherebbe nei momenti di necessità, e ci si sposa per una sorta di più o meno confessato interesse personale, per conoscere meglio sé stessi, per parlare con qualcuno il cui dialogo sia per noi una sorta di specchio, ci si sposa per assaporare meglio il lato divertente e bizzarro dell’esistenza, come ebbe a scrivere Svevo, secondo il quale nel matrimonio passano i giorni capaci di cornice, ricchi di suoni che frastornano, e di luce che scotta e per questo non annoia.
Ne dà la misura l’allegria, appunto, che pervade il dialogo fra i due coniugi, pronti a non prendere troppo sul serio i reciproci difetti, o la fretta che li ha portati al matrimonio. Un testo profondamente contemporaneo, valido ancora oggi per la sua acutezza antropologica, che ha saputo leggere in profondità le conseguenze del femminismo, associandole alla futura perdita di personalità e di peso della figura maschile, invero oggi fonte d’insoddisfazione, e persino sofferenza, per molte, troppe donne.
Salce è a suo agio nei panni di un novello Zeno Cosini, ancora frastornato dall’avventura del matrimonio, e non ancora cosciente su chi abbia veramente sposato. Da rivedere l’interpretazione di Chiara Francini che, se da una parte immette nello spettacolo una piacevole freschezza giovanile, quasi adolescenziale, dall’altra indulge eccessivamente nel falsetto, e in una dizione sporcata da troppi toscanismi. All’altezza la prova di Weber, Virando e Bartolucci, in ruoli minori per durata di apparizione, ma non per l’intensità che pongono nel dare vita a sfumature diverse della femminilità. Alla chiusura del sipario, meritati applausi per uno pièce garbata, allestita con eleganza contemporanea, sia scenica sia drammaturgia. di Niccolò Lucarelli