PRATO- L’amore al tempo della solitudine. Continua a al teatro Metastasio il discorso iniziato con i monologhi di Cocteau, dei quali Clôture de l’amour è l’ideale versione contemporanea. Il romanticismo è morto, una certa sfiducia legata a diffidenza sembrano essere i soli punti di vista per confrontarsi con gli altri. Un testo che già nel titolo tradisce una concezione claustrofobica dell’amore, clôture significando “recinzione”, ma anche, in senso figurato, “gabbia”. Riecheggiando il Principe Salina, per il quale l’amore è soltanto “fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta”, il drammaturgo francese Pascal Rambert mette a confronto la sfiducia dell’uomo in una relazione duratura e felice, con la tenace fede nei sentimenti che pure sopravvive nelle donne. Luca e Tamara, due giovani individui giunti al capolinea della loro storia sentimentale.
Come in una sorta di resa dei conti, ognuno esprime all’altro le proprie sensazioni, toccando anche la violenza verbale. Si fronteggiano in una grande stanza bianca, probabilmente un’aula per lezioni di yoga, o danza, dei quali parrebbero essere insegnanti nella stessa scuola, e quindi colleghi. Si fronteggiano gettandosi addosso una lunga requisitoria, prima l’uno poi l’altra, senza che chi ascolta possa replicare. Il protagonista maschile, Luca, è un uomo fondamentalmente intimidito dalla donna, immaturo davanti all’insostenibile immensità dell’amore.
Il suo monologo è declamato sulla falsariga di una pedante analisi psicologica, unico appiglio per tentare di sancire una pretesa forza di carattere. Tamara viene esaminata nel suo saper arrossire, nel suo idealismo dei sentimenti, nella sua convinzione che l’amore possa essere eterno. Un’analisi non priva di feroce ironia, che muove Luca alla demolizione del concetto d’amore attraverso un cinico polemismo, ben lontano però dall’inventiva e dall’eleganza di pensatori contemporanei quali il filosofo Michel Onfray.
È ridicolo, oggi, essere innamorati? Sì, poiché fondamentalmente si tratta di un’illusione. È questa l’amara conclusione di Luca, che non adduce però valide ragioni. La sua volontà di porre fine alla relazione con Tamara sembra dovuta a un’irrazionale paura della donna, in senso lato, sintomo di un malessere degli uomini contemporanei, non più capaci di esprimere al meglio la propria virilità, anche morale. Il pessimismo, sembra l’unica difesa. Un’attrazione per il negativo, quella dello smarrito Luca, che fa di lui un novello cechoviano Von Koren, sempre incline a trasferire la dimensione poetica e spirituale della vita vissuta, su un piano fisico di marcescenza e cadavericità.
Che sia autentica convinzione, o posa artificiosa, allo spettatore l’ardua sentenza. Sul palco, Tamara sembra propendere per la seconda ipotesi, e nella dura requisitoria con la quale controbatte alle parole di Luca, esprime tutta la sua compassione umana per la tragedia di un uomo proiettato in una negatività spirituale che lo allontana senza rimedio dagli altri, e anche dalla sua natura di essere umano. L’accusa di negatività si lega a quella di narcisismo, con la prima che alimenta la pretesa allure del secondo.
Molto meno remissiva di quanto Luca supponesse, Tamara risulta la vincitrice morale di questo confronto, inducendo l’uomo a una sorta di tardivo ripensamento; la sua pretesa forza morale gli appare più fragile del previsto. Ma, con raffinata crudeltà, Tamara lo abbandona al suo destino di solitudine. L’alternarsi di freddezza e fragilità nei due personaggi, suggerisce, da parte dell’autore, uno sguardo se non compassionevole almeno indulgente su questa scombinata umanità; torna alla mente ancora Cechov, che nel suo Zio Vania ammette come la normalità dell’uomo sia di essere “mezzo matto”.
A separare i due monologhi, un gruppo di bambini, (del Coro delle Voci Bianche della Società Corale Guido Monaco), che provano una canzone, nella fattispecie Bella, testo romantico di Lorenzo Jovanotti. Un implicito richiamo all’innocenza dell’amore, che i bambini sembrano essere gli unici a presentire. Luca Lazzareschi e Tamara Balducci si calano nei personaggi omonimi, con una recitazione disadorna e autentica, amara e violenta insieme. Scenicamente la distanza concettuale fra i due personaggi, è ribadita dalla loro posizione sul palco, uno sul lato destro, l’altro sul lato sinistro. All’impeccabile minimalismo estetico della scenografia, non corrisponde un’analoga asciuttezza del testo, che troppo spesso indulge in ripetizioni e prolissità che poco giovano a uno spettacolo strutturalmente non dinamico.
Del resto, Rambert si adegua alle tendenze della generazione letteraria contemporanea francese, quali De Botton, Houellebecq, e Beigbeder. Troppe parole che spesso si perdono nella noia. Ma a parte questo indulgere a uno stile di maniera, il testo si rivela interessante per l’indagine psicologica che mette in luce le nuove distanze createsi fra uomini e donne del nostro tempo e che dialoga con le drammaturgie del passato, approfondendo secoli di interrogativi su questi grandi misteri che sono l’amore e l’uomo. Applausi sostanzialmente meritati, da parte di un pubblico eccezionalmente non troppo numeroso. di Niccolò Lucarelli