FIRENZE- L’epopea del Seicento fiorentino risplende nelle sei nuove sale del primo piano, che ripercorrono una stagione meno nota dell’arte toscana, ma che invece riserva gradite e illuminanti sorprese, per quella capacità d’indagine artistica che i vari Dolci, Chimenti, Furini, Cigoli, seppero esprimere nelle loro tele. Dopo le Sale Blu dedicate alle scuole europee, e le Sale Rosse della maniera moderna, prosegue la realizzazione del progetto per i Grandi Uffizi, attraverso il quale la prestigiosa Galleria recupera alla collezione permanente importanti spazi storici.
Un lungo e complesso lavoro di riorganizzazione, riqualificazione e restauro che impegna dal 2011 l’intera grande macchina del museo, senza però che il cantieri abbia minimamente interferito con l’apertura al pubblico. Le nuove sale, sei, sono situate al primo piano del Loggiato di Levante, e coprono una superficie di 450 metri quadrati. Completate agli inizi degli anni Ottanta del XVI Secolo, ospitavano in origine opifici e laboratori di ebanisti e intagliatori, che il Granduca Francesco I aveva trasferiti dal casino di San Marco.
Dal 1817 le sale furono destinate, per volere dei Lorena, all’Archivio di Stato, e di questa funzione ancora s’intravedono le tracce, nei profili delle porte che vi furono aperte in quegli anni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, trasferito l’Archivio, le sale rimasero ai margini degli spazi museali, ospitando saltuariamente mostre temporanee. Con i lavori per i Grandi Uffizi si è inteso recuperare la piena funzionalità di tutta la storica struttura, che, come osserva il direttore Natali, è di per sé una macchina talmente delicata al punto che il più piccolo movimento può lasciare tracce; tuttavia, l’attenzione del personale è tale che gli allarmismi per crolli e catastrofi varie, sbandierate da certa stampa troppo facilona, sono ben lontani dal corrispondere alla realtà.
Per le festività pasquali è prevista la riapertura delle cinque sale della Tribuna, e del Gabinetto delle Miniature, nonché della sala 1, destinata alla pittura del Duecento. Il XVII Secolo a Firenze non fu caratterizzato da quella cupezza di toni e di idee che permeò l’Italia della Controriforma; un certo spirito ironico, fiero e indipendente era comunque rimasto in Toscana, erede della grande tradizione che dal Trecento del Sacchetti arriva fino al Rinascimento del Magnifico e del Poliziano.
È ovvio che anche l’arte ne avvertisse il benefico influsso, rendendo domestico e familiare, senza virtuosismi d’accademia, i temi trattati; pertanto avvicinarsi al Seicento fiorentino richiede uno sguardo particolare, che l’allestimento delle nuove sale ha cercato di interpretare, volendo esporre le tele seguendo un criterio tematico, e non cronologico, o secondo il nome dell’artista. Quindi, si percorrono sale dedicate rispettivamente a quadri di figura, di storia, ritratti, nature morte, paesaggi, per chiudere con il Seicento senese.
Cinquanta le opere esposte - venti delle quali provenienti dal primo tratto del Corridoio Vasariano -, scelte secondo il criterio della poeticità che emanano, per far meglio comprendere al pubblico gli splendori di un secolo che generalmente è visto come cupo e oppressivo. Il relativamente ridotto numero di opere evita il loro sovraffollamento, e ne permette la miglior fruizione possibile, accostato alla scelta di pareti dipinte in ocra, quell’oro un po’ spento, sporcato di buio e d’incenso, che richiama le decorazioni del Barocco.
A far risplendere il clima artistico della Firenze dell’epoca, pittori fra i quali Carlo Dolci, Francesco Furini, Jacopo Chimenti, Bartolomeo Bimbi, Justus Suttermans. Che la Città del Fiore fosse un polo d’attrazione per gli stranieri, non era cosa nuova, e tanto bene vi si trovavano che riuscivano in molti casi a interpretare il modo di essere dei toscani dell’epoca. Ne dà buona prova l’olandese Suttermans, nel suo La Cecca di Pratolino e Piero moro, tela dai risvolti umoristici che ritrae due contadine in compagnia di un piccolo nero.
Dai loro volti di vecchie campagnole, traspare tutta la ruvida, maliziosa schiettezza e quell’essere “gavazziere” del popolo toscano, che Dante, Sacchetti e Firenzuola avevano immortalato nelle loro pagine. Così come il ritratto di Galilei, del medesimo autore, ci mostra nello sguardo tutta la pacata determinazione con la quale portò avanti i suoi studi, e sopportò le persecuzioni della Chiesa. Tinte più gaie nella sala delle nature morte, dove spiccano i trionfi gastronomici del Chimenti, accanto alle composizioni floreali del Dolci.
Fra i paesaggi, spiccano le scene campestri di Filippo Napoletano, e per l’impostazione scenica, quasi cinematografica, L’incendio di Troia, di Stefano della Bella. Particolarmente interessante per comprendere i caratteri del Seicento fiorentino, quelle allegorie che dimostrano una particolare confidenza con la donna, lontana dal moralismo barocco. Popolo sensibile alla bellezza, il fiorentino, poco incline a cedere la sua sovranità sul libero pensiero a Roma o ad altri potentati, e nell’arte, nessun pittore restava insensibile alle piacentiere donne toscane, le cui grazie affioravano poi sulla tela.
La Figura allegorica di Francesco Furini e bottega, sotto la pudica allegoria dell’Avarizia, ritrae, più verosimilmente, una prostituta dell’epoca, dal seno prosperoso e dallo sguardo sensuale. Una tela al di fuori dell’accademia, che non sfigura accanto alle altre allegoria della Giustizia, delle Tentazioni, della Vanità, perché di tutto questo l’irriverente popolo toscano sa fare buon uso, e l’arte ne è fedele testimone. Sei nuove sale, di cui abbiamo qui dato un breve saggio, che arricchiscono gli Uffizi, e contribuiscono alla conoscenza delle radici antropologiche del popolo toscano.
Funzione importante, della quale a volte, sfortunatamente, ci si dimentica. Niccolò Lucarelli