PISTOIA- Travolgente successo di pubblico per Filippo Timi e il suo Don Giovanni, vivere è un abuso mai un diritto, allestito in prima regionale al Teatro Manzoni. Dando seguito alla sua caustica verve drammaturgica, il regista e interprete immagina un seduttore contemporaneo, e si chiede chi sarebbe oggi Don Giovanni, in un’epoca fortemente dominata dall’argomento sessuale, l’approccio verso il quale non è più, però quello elegante e intelligente dei dandy del passato.
Una scenografia sontuosa e accattivante, che spazia dagli sfondi rinascimentali al minimalismo d’arredo che ricorda gli interni di Arancia meccanica, si snoda la vicenda di un tombeur de femmes, alle prese con un universo femminile volubile e insaziabile, avido e aggressivo; è questo lo sfondo di una matura riflessione sull’evoluzione del rapporto uomo-donna negli ultimi trent’anni, così come è sfondo di considerazioni sulla caducità della vita e il suo significato, e la paradossale importanza che la morte può rivestire, se appena ci prestassimo attenzione.
L’amore è una problematica che scatena l’egotismo, o l’egoismo, di ogni individuo, e il complesso rapporto che lega Don Giovanni alle sue conquiste femminili - un’attrazione che è anche uno scontro -, si risolve nella necessità di fare dell’apparenza il proprio destino, serbando tuttavia nei più oscuri recessi dell’anima tutto il peso dell’essere, che ambirebbe a imprese ben più grandiose. Ecco perché Don Giovanni si serve di Leporello, per evitare quelle mansioni più umili che ripugnano alla sua signorilità.
O almeno, così sembra. In realtà, come emerge sul finire della storia, Don Giovanni, occupandosi del solo lato estetico dell’esistenza, sta semplicemente recitando una parte, non scevra di fatiche, e ciò lo porta a invidiare o almeno a desiderare di essere talvolta Leporello; la problematica di quale sia la “vera” realtà della vita, è affrontata da Timi con intelligente senso dell’umorismo, attraverso il padrone che improvvisa una serenata al suo sevo, per convincerlo a non abbandonarlo, dopo l’ennesima situazione difficile in cui lo ha cacciato.
Filippo Timi interpreta un Don Giovanni profondamente umano, in cui lo spirito dandistico lascia da parte le questioni estetiche e medita sulla banalità dell’esistenza, sull’assurdità del concetto di peccato, in questo riecheggiando il divin Marchese De Sade. Con questa crudeltà che riveste la sua idea di amore, Don Giovanni si muove fra una conquista e l’altra per apparire meno ridicolo ai suoi stessi occhi, e sfogare la sua rabbia verso quella trappola che è l’esistenza. Nell’allestimento di Filippo Timi, un’atmosfera giocosa non priva di gradevole senso del comico, permea lo spettacolo, celando però, dietro le risate, un residuo senso del peso dell’esistenza, del dilemma del doppi - Don Giovanni/Leporello, ma anche Donna Anna/Don Ottavio; quest’ultimo si spiega con la totale sottomissione dell’uomo nei confronti della moglie, con il primo che vive attraverso di lei, un “attraverso” ben differente da quello di Don Giovanni con il suo servo. Ma l’azione, ovviamente, si concentra sugli amori del protagonista, e sul palco non si risparmiano toccamenti, doppi sensi, sguardi di sbieco, risatine e scene di nudo.
Un’atmosfera che non scade mai nella volgarità, perché supportata da contenuti concettuali. Attraverso il personaggio di Zerlina, popolana dal forte accento romanesco, Timi omaggia le atmosfere erotico-popolaresche del Marchese del Grillo, e insieme il teatro italiano dialettale, ma svolge anche un’attenta indagine sulla contemporaneità; Lietti interpreta con bravura una connetta semplice e volubile, dalla comica mancanza di eleganza femminile, accostabile alle tante ragazzette cresciute con il mito della velina della tv, e senza quella cultura dell’eleganza che, come affermava Coco Chanel, è prima di tutto una questione d’intelligenza.
Da parte sua, Marina Rocco interpreta con ironia un personaggio fortemente contemporaneo, intellettualmente ingenuo, ma comunque di buoni sentimenti. Don Giovanni cede al fascino di Zerlina perché, in quest’epoca involgarita, nemmeno a lui è lecito aspettarsi alternative migliori, se non in via eccezionale. Tuttavia, la sua curiosità, o il suo ennui che dir si voglia, lo porta ad affrontare ogni genere d’avventura, senza troppo curarsi della morale. Attraverso la parabola del protagonista, Timi affronta temi scomodi quali la pedofilia, appena accennata nella sua relazione con Donna Anna, che rappresenta per il seduttore una sorta di ultima malvagia soddisfazione, nella sua fuga dalla morte; dopo averne ucciso il padre, tenta di sedurre colei che è ancora una ragazzina, ma che gli darà non poco filo da torcere.
Elena Lietti dà vita a una donna che idealmente incarna la rabbia di tutte le donne oggetto di violenza in questa società abbrutita. Dall’intenso dominio che esercita sull’irresoluto marito, emerge un malessere che rispecchia la difficile situazione sociale del Paese. Fra le conquiste dongiovannesche, l’unica legata al passato è Donna Elvira, rivisitata da Timi in una chiave estetica degna di Lady Gaga, capace di evocare l’opulenza femminile del Settecento, sia nell’intensità delle passioni sia nell’abbigliamento; Lucia Mascino ne fa uno splendido personaggio melodrammatico e avidamente romantico, attenta a un’estetica esuberante, e l’unica legata all’amore come forma di realizzazione dell’essere. Sullo sfondo, non mancano considerazioni sull’omosessualità, che Timi attribuisce al suo servitore e a quello di Donna Elvira, come una relazione che fa da specchio a quella dei padroni.
Riassumendo, chi è oggi Don Giovanni? Un pagliaccio protagonista di una farsa imbarazzante. Concettualmente, anche la colonna sonora supporta la complessità dello spettacolo; il sipario si apre sul protagonista morente, che cerca fino all’ultimo di negare l’evidenza. E le note struggenti di Ridi pagliaccio, forniscono la cifra del malessere esistenziale del protagonista. Alla fine, dopo gli intrecci comici e amari insieme della trama, la morte di Don Giovanni si trasforma in teatro, in sfolgorio dell’anima che brilla come non mai nel momento supremo, dimostrando che cessando di esistere, si esiste più intensamente, riconoscendo e irridendo la propria caducità.
Intensi e meritati applausi, in chiusura, per uno spettacolo che, se nella seconda parte indulge un po’ troppo in un comicità dai doppi sensi sessuali ormai scontati, e si lascia trascinare nell’allungare alcune scene, nel complesso merita il gradimento del pubblico perché oltre alla bellezza scenica dell’allestimento, propone interessanti riflessioni sulla società contemporanea, attraverso la rilettura di un personaggio che fu tra i primi esistenzialisti europei. di Niccolò Lucarelli