TORINO - Il prestigioso Teatro Carignano ha inaugurata la nuova stagione con Il teatrante, caustica e intelligente pièce di Thomas Bernhard che indaga, non senza amarezza, i meccanismi e le contraddizioni di quel mondo di guitti che da sempre è il teatro, che si ascrive il merito di essere lo specchio della vita. Sullo sfondo, si staglia la crisi sociale dell’Europa che a distanza di decenni non è ancora completamente riuscita a riscattarsi dalla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Allestita e interpretata da Franco Branciaroli, nel ruolo principale di Bruscon, lo spettacolo racconta le tragicomiche vicende di questo attore sfortunato e dei suoi familiari, impegnati nell’allestire una commedia in una locanda di uno sperduto villaggio austriaco.
Branciaroli dà magistralmente vita a un ipocondriaco, misogino, e paradossale artista inappartenente, che al teatro ha dedicata la vita in nome dell’amore per l’arte, e con l’idea di compiere il beau geste intellettuale che consacrasse quella stessa vita. Disgraziatamente, senza risultati apprezzabili. Pertanto, è un uomo deluso e disilluso quello che, sul palco, rimugina sul suo passato, inveisce contro i familiari (stanchi di lui, ormai logorroico), e fantastica di improbabili affinità con Pirandello o Schopenhauer.
Scettico verso gli uomini, non meno verso i suoi stessi familiari, Bruscon tuona contro i ciarlatani dell’arte, la volgarità della vita proletaria e piccolo-borghese, senza rendersi conto di essere diventato egli stesso un piccolo-borghese con le ambizioni ormai frustrate. Abitudinario e meticoloso, nonostante sia un artista, Bruscon è uomo pieno di contraddizioni, a suo modo un dandy che aborre la folla, e resta impassibile davanti alla poca eleganza della vita quotidiana. Estremamente efficace, nella rappresentazione del personaggio, il tono pedante e monotono, cosparso qua e là di citazioni altisonanti ed espressioni auliche, che Branciaroli utilizza nella recitazione.
Quasi un monologo, il suo, a tratti timidamente interrotto dai colpi di tosse della moglie (interpretata da Melania Giglio), una connetta spaurita rassegnata alle paturnie del marito. Non meno ipocondriaca di lui, tremante e tormentata dalla tosse, affronta la scena con rassegnazione, così come i figli Sarah e Ferruccio, (rispettivamente Valentina Violo e Tommaso Cardarelli), la cui refrattarietà al mestiere del teatro è probabilmente dovuta all’opprimente presenza del padre, tirannico ed esigente maestro.
Nei loro silenzi, i due esprimono un bel gioco di sguardi e gestualità, che ben comunica quello stato d’animo di noia, rassegnazione, e apatia, che solo una lunga sopportazione fa emergere. Fra i momenti di gustosa comicità dello spettacolo, le improbabili lezioni di recitazione di Bruscon ai figli, o il suo continuo inveire contro la locanda del Cervo Nero, troppo povera e rozza, e ancora l’attonito e rassegnato silenzio dell’oste, che armato di buona pazienza cerca di soddisfare le pedanti richieste dell’attore, quali la stracciatella, per la quale sembra nutrire una vera ossessione. L’unico che continua a coltivare sogni di gloria, è proprio Bruscon.
Eppure, nella sua fantasticheria non mancano lucide considerazioni sul teatro della crisi, ovvero quello contemporaneo, che l’uomo accusa di essere falso, poiché manca l’autentica immedesimazione fra attore e personaggio. Una polemica, nemmeno troppo velata, rivolta ai cambiamenti dell’approccio e del metodo attoriale sopravvenuti verso la fine degli anni Settanta, e che spesso hanno impoverito il teatro. Così come la surreale commedia che Bruscon allestisce, e che mette insieme Metternich, Napoleone, Hitler, Stalin, la scienza e la filosofia, è specchio della carenza d’ispirazione dei drammaturghi contemporanei, tanto che si può affermare come, dopo Pinter, sia rimasto un grande vuoto.
Coraggiosa pièce che parla del teatro, che non può essere compiacente, come afferma lo stesso Bruscon, ma che ha persa, nelle sue forme più contemporanee, la capacità di raccontare la società. Thomas Bernhard, autore mitteleuropeo solitamente impegnativo, nel suo Teatrante lascia momentaneamente da parte quella vena di gentile crudeltà e pensoso erotismo che lo ha caratterizzato, sulla scia di Marai, Celan, e von Rezzori, per un testo intriso di quell’originale ironia, non scevra di scetticismo, che lo avvicina a Svevo e Witckiewicz.
La vita, nelle sue follie, manie, malattie e ricerche, è, appunto, originale. E tale è il teatro. Entusiasti e divertiti applausi del pubblico, per uno spettacolo caustico e leggero al tempo stesso, sintesi perfetta di quella Mitteleuropea meno conosciuta, fatta di bizzarrie e grandi domande. Chi è il teatrante? Forse, a ben guardare, l’ultimo eroe del nostro tempo. Niccolò Lucarelli