Dopo il debutto a Cagliari in prima nazionale, arriva a Prato “I fratelli Karamazov” per la regia di Guido De Monticelli, a proseguimento di una collaborazione profondamente fattiva fra Toscana e Sardegna, fra due registi e due compagnie stabili (nel novembre scorso era stato infatti allestito a Prato “Il giardino dei ciliegi” per la regia di Paolo Magelli). Un’operazione scaturita da una collaborazione di grande rilievo, non solo artistico e intellettuale, ma anche sociale, che ora prosegue con la messa in scena dell’opera di un grande narratore dell’animo umano come lo fu Dostoevskij. I fratelli Karamazov, ultimo romanzo di Fëdor Dostoevskij (pubblicato a puntate nel 1879), è un grande palcoscenico dove il tema del male e dell'esistenza di Dio si fanno rovente dibattito nell'incontro fra i tre fratelli, l'evangelico Alesa, il passionale Dimitrij e il tormentato e raziocinate Ivan, sullo sfondo di un terribile delitto: l'uccisione del padre, figura buffonesca e filistea.
Intorno ai fratelli e alla torbida e divorante azione in cui sono implicati, si dibatte una miriade di creature, intrappolate nell'eterna lotta fra il bene e il male. Sullo sfondo la figura luminosa di padre Zosima, presso il cui monastero il giovane Alëša fa il suo noviziato. Ma Alëša viene mandato nel mondo dal suo padre spirituale, lontano dalla dolcezza del maestro, dove c’è più bisogno di lui, là dove si consuma un’azione divorante e torbida in cui sono implicati i fratelli e il padre e una miriade di altre creature intrappolate nell’eterna lotta tra il bene e il male: è un lacerante viaggio nell’“umano” nel quale la conoscenza che il giovane, dotato di amore evangelico, fa dei fratelli – Dmitrij, assatanato dall’eros come il padre, ma anche capace anche di grande nobiltà, e Ivan, preda di una libido della ragione che lo porta a farsi negatore di Dio - si fa frutto amaro e insieme dolcissimo di rinnovamento spirituale. Ivan vuole restituire a Dio il biglietto per quel paradiso che costi la sofferenza anche a un solo bambino.
Ma in Alëša, che eredita la parola di padre Zosima, si incarna il sogno di Dostoevskij, e il presagio che il regno di Cristo si instaurerà sulla terra e non in un ipotetico aldilà, perché l’amore universale vincerà il dolore e la morte, e la terra tornerà come alle origini. Guido De Monticelli Da pubblicazione su libretto di sala: La sofferenza e le frittelle Oltre mille pagine, suddivise in quattro parti e dodici libri: la maestosa architettura del romanzo di Dostoevskij ci si è aperta davanti in tutta la sua complessa bellezza, con le sue altissime guglie, le sue luminose vetrate, le sue sotterranee, oscure cappelle.
E, certo, alla fine del lungo percorso di lettura, una lettura che ci siamo fatti ad alta voce, reciprocamente l’un l’altro, per ben due volte, seduti sotto il cielo dolce della Toscana (terra così lontana dal paesaggio russo che Dostoevskij amava e considerava impossibile da capire per il cittadino europeo), dopo avere accompagnato Alëša nel suo cammino di conoscenza, essere stati testimoni accanto a lui, e con lui sofferto, dei tormenti dei fratelli, dell’umiliazione del Capitano Strofinaccio e soprattutto della sorte del piccolo Il’juša, ci ha preso uno grande scoramento: da che parte, in che modo prendere tutte quelle parole e portarle intatte con la loro forza dentro lo spazio ristretto del palcoscenico, dentro il tempo convenzionale di uno spettacolo? “L’uomo è vasto, troppo vasto, io lo restringerei”, dice Dmitrij.
Come seguire il pensiero di Dmitrij, restringere l’uomo dostoevskiano fra le quinte di un teatro, senza però perdere la sua vastità? Alëša, dichiara nella sua prefazione Dostoevskij, è il mio eroe; certo, aggiunge, non è un grand’uomo, è modesto ma è singolare, strano. Persino stravagante (e usa la parola “cudak”, la stessa con cui Astrov definisce se stesso e Vanja nello Zio Vanja di Cechov!). E allora abbiamo provato a seguirlo Alëša, questo diciottenne bislacco e un po’ “idiota”, a portarcelo sempre dietro nella nostra lettura, e con i suoi occhi di testimone che non giudica mai (“io sento che sei l’unica persona al mondo che non mi abbia mai condannato” dichiara il cattivo e sentimentale Fëdor Pavlovič, il padre destinato a essere ucciso), a guardare il dipanarsi delle storie.
Ci siamo insomma attaccati alla tonaca di Alëša per compiere una prima scelta e lasciare al libro quei capitoli, quelle parti di trama in cui Alëša era assente. E d’un tratto, senza preoccuparci di seguire la reale successione dei capitoli del romanzo, abbiamo sentito che la prima battuta che doveva risuonare sul palcoscenico, non poteva essere che una domanda, quella semplice e chiara che tormenta tutti i personaggi dostoevskiani (e in primo luogo il loro autore): Dio c’è o non c’è? La famiglia è radunata attorno a un tavolo, si beve cognac e si parla dell’immortalità dell’anima.
E tra il sì limpido di Alëša, il sì di chi dice Dio e intende amore attivo, e il no secco e tagliente di Ivàn, un no che è una ferita nella sua anima, la ferita aperta dalle ingiustizie del mondo, c’è il gioco, filisteo e indifferente, fra il sì e il no di Fëdor Pavlovič, il padre buffone, che si gingilla con storielle di martiri e di diavoli con gli uncini. Perché al padre, gli eterni problemi della bene della giustizia della libertà non interessano affatto – “i vecchi si sono messi di colpo a occuparsi di questioni pratiche” dice Ivàn ad Alëša – mentre i figli, i rappresentanti della giovane Russia hanno sete di parlare dei “sempiterni problemi” e si ritrovano, per farlo, al tavolo di squallide trattorie. Ma ecco che a interrompere il casalingo dibattito metafisico arriva il fratello Dmitrij e con lui irrompe tutta la forza dell’ardore giovanile, tutta la violenza dell’odio e della gelosia verso un padre rivale e meschino, tutta la sensualità (quella che Dio ha donato anche agli insetti), entra in scena, insomma, nelle vesti del primo figlio Karamazov, quel gran groviglio di bene e male che è la vita in quel mondo creato da Dio e che Ivàn si rifiuta di accettare. Pian piano, a partire da questa scena, abbiamo cominciato a intravedere che i due binari entro cui ci piaceva far avanzare la nostra “restrizione” erano da una parte le “domande ultime” attorno al grande enigma della vita, gli interrogativi sulla natura dell’amore (è possibile amare il prossimo?), sulla crudeltà dell’uomo verso gli inermi, gli innocenti (a che scopo le sofferenze dei bambini nel disegno di Dio?), sulla virtù (l’uomo sa essere virtuoso anche senza la speranza di una ricompensa ultraterrena?), sulla disuguaglianza (“Papà, è vero che i ricchi sono più forti di tutti a questo mondo?”) che tutti gli eroi grandi e piccoli dei Fratelli Karamazov indagano e scrutano con serietà, ardore e sofferenza; e dall’altra la gioia che ci donano le piccole gemme primaverili e il cielo azzurro, la voglia di vivere che viene dalle viscere, che sgorga inarrestabile al di là del senso che si vuole dare alla vita stessa, la vita che si ha voglia di vivere con pienezza anche con le catene ai piedi del deportato avviato alla Siberia. Quindi se abbiamo cercato di non tralasciare gli elementi che rendono comprensibile la fabula, la storia, del resto assai intricata del delitto, non è sul “giallo” che abbiamo calcato la penna, né sulla natura “nera”, luciferina delle storie d’amore. Ci è sembrato che, guardato da vicino, ogni personaggio avesse una sua irresistibile tenerezza, per quanto urlasse e sbraitasse e minacciasse e facesse scene isteriche o si dichiarasse una cimice, un donna cattiva o un animo meschino.
Fosse solo per la fiducia che tutti quanti ripongono in Alëša, cui guardano, come dice Grùšen’ka, come alla propria coscienza. Il minore dei Karamazov non giudica, è sempre pronto, anzi, teso all’ascolto, e ognuno, parlando con lui, ritrova come l’innocenza infantile che non resiste a confessare il male compiuto o che si vorrebbe compiere. Così procede il copione, fra rifiuti del mondo e inni alla vita, fra sogni deliranti di diavoli meschini, sogni di povertà nera e sogni di conciliazione (le Nozze di Cana cui tutti sono invitati); fra un delitto, un suicidio, una condanna ingiusta, la morte ancor più ingiusta di un bambino e le frittelle e il sorriso finale di Alëša.
“Com’è tutto strano, Karamazov, tanta sofferenza e poi delle frittelle!”, esclama stupito un ragazzino di fronte alla tavola commemorativa per i funerali di Il’juša. Anche noi abbiamo pensato, con Alëša, che in questa antica tradizione c’è del buono.