C'è un sovrapporsi continuo di prosa ed esperienze di vita reale nel capolavoro dei fratelli Taviani "Cesare deve morire". E' il "Giulio Cesare "di Shakespeare rivisitato dai detenuti di Rebibbia. I registi raccontano la genesi di un progetto interessante come quello di dare la possibilità ai detenuti di avvicinarsi all'arte tramite il teatro, e al tempo stesso dare spazio anche alla personalità e al vissuto di ognuno di loro. Questo con l'aiuto di Fabio Cavalli, attore e autore teatrale, direttore artistico del Centro Studi Enrico Maria Salerno.
Il risultato è splendido. La critica ha parlato riduttiva mente di docu-fiction per un film che avvince ed emoziona. Il capolavoro di Shakespeare, opera immortale, ne è, se possibile, arricchito da questa messa in scena particolare, che suggerisce e ci ricorda come le opere del Bardo nascessero come testi scritti per spettacoli popolari. Il film si apre con l'applauso convinto del pubblico del teatro di Rebibbia dopo la scena finale, per ripercorrere poi il progetto teatrale nel suo farsi, dal casting alle prove e ai confronti tra attori e regista.
Nel film non vediamo, in pratica, la rappresentazione sul palco, ma percepiamo l’intera vicenda attraverso la frammentazione delle prove fotografate in un significativo bianco e nero, e solo pochissime sequenze sono concesse alla presentazione dei personaggi, quelli veri che ancora vivono a Rebibbia. Lo sguardo dei Taviani trascorre sugli ambienti in cui si svolgono le prove, dai corridoi al cortile del carcere, fino alle celle anguste dalle quali alcuni di loro probabilmente non usciranno mai.
Non mancano le sequenze suggestive, come le prove della "congiura", che si svolgono in cortile, con gli altri detenuti di Rebibbia radunati alle finestre sovrastanti. La scelta del "Giulio Cesare" non è casuale: la tragedia, densa di conflitto psicologico sui temi del tradimento e della cospirazione, sembra echeggiare le attività criminali dei protagonisti che non a caso vivono le parti con un coinvolgimento totale, come se si trattassero di pezzi di vita vera. Quando si schierano contro Cesare, il leader che si fa dittatore, le parole tradimento e lealtà hanno un significato universale e calzante allo stesso tempo.
Sono "uomini d'onore", dice Antonio degli assassini di Cesare, nel duplice senso che conosciamo: alcuni di loro stanno effettivamente scontando la pena per reati mafiosi. Nel palcoscenico virtuale del carcere, la recita si mescola con la vita, così scopriamo che Bruto (Salvatore Striano) è fuori da Rebibbia e si è dato alla recitazione. Per molti di loro non c’è il lieto fine, Cassio (Cosimo Rega) confessa davanti alla camera da presa: "Da quando ho scoperto l'arte questa cella mi sembra una prigione".
I volti di questo film rimangono impressi, sono volti di uomini fuori dal comune. L'opera di Shakespeare è riadattata sulle personalità di chi la rievoca su questo inusuale palcoscenico, dove i dialetti si mescolano alla classicità delle parole del Bardo e permettono agli attori di raccontarsi tramite l'espressione artistica. Non c'è,forse, confine tra la loro vita e la finzione scenica e la qualità di "Cesare deve morire" risiede anche in quanto i Taviani riescono a evocare e raccontare al di là delle parole di Shakespeare.
Premiato con l'Orso d'oro al Festival di Berlino, "Cesare deve morire"è una delle opere più belle dei fratelli Taviani, uno dei film più riusciti delle ultime stagioni della cinematografia italiana. di Alessandro Lazzeri