Firenze, 22 maggio 2011- In più di 94.000 visitatori sono arrivati a Terra Futura, alla Fortezza da Basso a Firenze in questi tre giorni, per conoscere dal vivo le numerose buone prassi di sostenibilità diffuse nel Paese. Quelle di un’Italia che sceglie le rinnovabili, che sposa il turismo responsabile, che per la casa acquista arredi ecocompatibili; e ancora che fa parte di un gruppo di acquisto solidale, evita gli sprechi di cibo o mangia biologico, che ricicla gli oggetti e li riusa dando loro nuova vita, che beve l’acqua pubblica, che non guarda con paura al Mediterraneo e apprezza la ricchezza dell’incontro con le diversità.
Che si impegna in prima persona per la tutela di diritti degli uomini e di popoli e per il governo partecipato dei territori, che crede nell’informazione libera e democratica. Un’area espositiva con 13 sezioni, 600 aree, 5000 realtà rappresentate; oltre 280 i convegni e seminari con quasi 1000 i relatori intervenuti, 250 i momenti di animazione e i laboratori per adulti e bambini. Promotori dell’evento Fondazione culturale Responsabilità Etica onlus per il sistema Banca Etica, Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale, insieme ai partner Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete e Legambiente, che danno appuntamento alla prossima edizione dal 25 al 27 maggio 2012.
Tanti i temi al centro dei dibattiti: acqua, clima ed energia, informazione, diritto al cibo e giustizia alimentare, diritti e cittadinanza, economia e finanza, pace e sostenibilità. Come sempre Terra Futura è stata anche un’opportunità di social e green business: 700 incontri one to one alla “Borsa delle imprese responsabili”, che ha messo in contatto aziende, realtà della pubblica amministrazione, associazioni e cooperative, intervenute per proporre i propri servizi e prodotti, creare partnership, cercare fornitori socialmente e ambientalmente responsabili. «Presidente hai detto che era il tempo di parlare senza paura.
Ok, io ho parlato anche se so che adesso mi aspettano guai! Vedo l’ingiustizia ovunque, ecco perché ho deciso di raccontare tutto!»: così si rivolge a Ben Ali il rapper tunisino El General in una delle canzoni simbolo, e quindi censurate, della rivolta tunisina. È un concerto del poco più che ventenne HAMADA BEN AMOR - finito in galera proprio per le sue canzoni nel gennaio scorso e rilasciato dopo cinque giorni grazie a una mobilitazione di cittadini -, a chiudere l’ottava edizione di TERRA FUTURA, mostra convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale, alla Fortezza da Basso a Firenze.
L’ultima giornata è dedicata, tra gli altri temi, alla primavera araba, il grande movimento di emancipazione che ha preso il via nel Maghreb, infiammando poi altre zone del mondo arabo, per chiedere a gran voce libertà e democrazia contro la tirannia dei regimi. Centrale il ruolo delle donne in queste lotte di liberazione partite dal basso: una decina di associazioni e ong di donne tunisine ha formato una sacca di resistenza al regime, scrivendo rapporti sullo stato della libertà e della repressione in Tunisia per fare conoscere all’estero la drammatica situazione.
Lo stato tunisino ha spesso strumentalizzato la questione femminile, facendo credere che una legislazione avanzata sul tema potesse garantire libertà e parità, di fatto non esistenti. Ma la resistenza delle donne è stata dura, come testimonia RADHIA BENHAJ ZEKRI, presidente dell’Associazione delle donne tunisine per la ricerca sullo sviluppo (una delle realtà in prima fila nella rivoluzione): «Ci è stata impedita l’azione in ogni modo: ci hanno vietato l’accesso allo spazio pubblico, siamo rimaste confinate in piccoli locali, la banca centrale ha bloccato i fondi alle ong e alle associazioni, e la polizia impediva alle giovani, nostra forza vitale, l’accesso alle sedi delle nostre organizzazioni.
Così ci siamo dovute organizzare per sopravvivere e per restare operative. A differenza di altre rivoluzioni, quella tunisina è fatta di uomini e di molte donne, che hanno avuto un ruolo importante e all’avanguardia. E hanno pagato caro il loro impegno: sono state arrestate, ferite e uccise». Fondamentale è stato anche il ruolo della rete, del web, nonostante il regime abbia tentato di impedire la comunicazione oscurando i siti e vietando alle associazioni di averne uno. L’evento simbolo della protesta è stata l’immolazione del giovane disoccupato Mohamed Bouazizi, che si è dato fuoco lo scorso dicembre.
Così i giovani delle classi medie hanno iniziato a informarsi, a scrivere sui blog e a diffondere immagini delle manifestazioni represse nel sangue, mentre l’informazione ufficiale non mostrava nulla di tutto ciò. Grazie alla rete, l’intero Paese è scoppiato, dal Nord al Sud. Ora la Tunisia sta attraversando una situazione molto fragile, è in un periodo di costruzione. «Le donne – racconta ancora la Zekri - richiedono la presenza nella costruzione delle nuove istituzioni. Dopo 50 anni, la sovranità va ora ridata al popolo: il governo attuale è provvisorio e illegittimo, con a capo un ex presidente del Parlamento senza poteri e che garantisce solo una piccola transizione.
Ci battiamo per elezioni libere, ma la rivoluzione è nata spontaneamente, senza partiti e senza leader, quindi non è di facile gestione. Ora c’è un vuoto istituzionale, c’è confusione e pericolo, perché le forze del vecchio regime continuano comunque a insidiare la rivoluzione. È nata anche una campagna per cambiare la legge elettorale, imponendo la parità nelle preferenze, affiancando un uomo e una donna, perché il nostro motto è “fare la rivoluzione insieme”». Ci sono poi i problemi di sicurezza alle frontiere dalla Libia e dall’Algeria.
«Quanto accaduto nel Maghreb - ha commentato KUROSH DANESH, responsabile coordinamento immigrati CGIL – è un grido di libertà, un insieme di richieste fondamentali, le stesse che pongono i giovani in tutto il mondo. E la rivoluzione è nata da un movimento laico, senza rapporti con l’Islam fondamentalista, che vuole cambiare i Paesi in termini più democratici e proiettati verso il futuro. La Comunità internazionale deve dare tutto il suo sostegno e capire che storicamente quando ci sono grandi cambiamenti sociali si ha sempre un movimento di esseri umani e non si è davanti a nessuna invasione.
L’Italia, ad esempio, è un Paese che può crescere se progredisce il Mezzogiorno e questo sviluppo sarà aiutato da una maggior democrazia nell’area mediterranea». Il tema caldo della privatizzazione dell’acqua, a pochi giorni dal referendum del 12 e 13 giugno, è stato al centro della terza giornata di TERRA FUTURA, la mostra-convegno sulla sostenibilità che si chiude oggi a Firenze (Fortezza da Basso). A perorare la causa referendaria per l’acqua pubblica in prima linea anche padre ALEX ZANOTELLI, missionario comboniano, che non ha esitato a usare parole forti: «La privatizzazione è per me una bestemmia.
Quello italiano è il primo Parlamento in Europa, e forse al mondo, ad aver fatto una cosa simile. Per questo è importante discutere di questo tema a Terra Futura». Ed entrando nel merito del referendum: «Dobbiamo davvero, partendo da una vittoria sull’acqua, recuperare tutti gli altri beni comuni di cui, uno dopo l’altro, ci hanno privato – ha detto -. Noi parliamo di democrazia, ma ormai non decidiamo più nulla. Se riusciamo a liberare l’acqua dal mercato e dal profitto, c’è una speranza di recuperare anche tutti gli altri beni comuni.
Ecco perché diventa vitale votare per questo referendum». Dura anche SUSAN GEORGE, economista di fama mondiale, che ha definito “critica” la situazione italiana: «L’acqua è privatizzata perché è una risorsa rara e indispensabile ed è facile preda delle strumentalizzazioni capitalistiche. Quella contro la privatizzazione dovrebbe essere la campagna del momento, una campagna di tutti: genitori, cittadini, associazioni, sindacati, ecologisti». Se il dibattito in Italia si concentra sul quesito referendario, il resto del mondo si confronta con il problema dell’accesso all’acqua e sugli effetti dei mutamenti climatici.
«Alcune zone del pianeta già secche lo diventeranno ancora di più – ha commentato sempre Susan George –. La questione dell’acqua nel prossimo futuro genererà sicuramente conflitti». Le possibili soluzioni al problema? «L’adozione di sistemi di irrigazione più efficienti e il sostegno alle persone e ai movimenti che si battono perché l’acqua resti un bene pubblico, per esempio attraverso la partecipazione dei cittadini negli enti che la gestiscono». Padre Zanotelli ha ricordato che nel mondo 1,3 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua potabile e che le previsioni dell’Onu parlano di 3 miliardi tra qualche anno.
Questo senza contare il grande problema del surriscaldamento globale: «Buona parte dell’acqua potabile che abbiamo oggi non ci sarà più in futuro e le temperature in Africa si innalzeranno di 3-4 gradi, secondo gli esperti. Se queste sono le prospettive, chi ha soldi e potrà comprarsela vivrà, mentre gli altri saranno esclusi dalla storia. Questo non lo posso accettare. È un problema etico, morale, spirituale». Tra le buone pratiche di lotta per il diritto all’acqua presentate a Terra Futura, l’esperienza di monsignor LUIS INFANTI DE LA MORA, rappresentante del Consiglio per la difesa della Patagonia (CDP): in questa veste il vescovo della regione dell’Aysèn (Cile) ha partecipato all’assemblea degli azionisti Enel per opporsi al progetto di cinque dighe e chiedere la restituzione ai cileni dei “diritti di sfruttamento” dell’acqua.
«La Patagonia – ha spiegato – negli ultimi vent’anni è diventata terra molto ambita dalle multinazionali e questo ha dato origine a scontri, anche violenti, tra i favorevoli e i contrari ai progetti proposti, o meglio, imposti. Quella delle multinazionali è un’invasione “pacifica”, che non avviene con le armi, ma con la forza del potere economico e politico, con frequenti tentativi di comprare la comunità e pure la Chiesa e le altre organizzazioni che aiutano la gente a sviluppare un pensiero critico».