Una sorta di maledettismo connota talvolta alcuni artisti, ne amplifica l'immagine, spesso a discapito della conoscenza della loro opera. Per certi versi è il caso di Antonio Ligabue, sulla cui opera è in corso, sino al 16 gennaio alla Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti la mostra “Ruggito. Antonio Ligabue: la lotta per la vita". La vicenda biografica di Antonio Ligabue, la sua emarginazione, il suo disagio psichico hanno veicolato un'immagine mitica e un po' forzata di pittore naif.
Non è casuale che la fortuna dell'artista sia nata o, comunque, ampiamente consolidata negli anni Settanta, quando si affermava grazie all'applicazione della legge Basaglia, il superamento dell'istituzione manicomiale. E Ligabue, grazie anche a un bel docu-film televisivo, era divenuto una sorta di “eroe popolare”, di emarginato che si riscattava con la sua arte. Adesso per fortuna, grazie ad un'ampia letteratura critica si è proceduto ad un'attenta analisi della sua opera. In questa linea si muove la mostra di Palazzo Pitti, organizzata dal Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma. La mostra che è incentrata sulla tematica degli animali, in particolare belve colte in scene di lotta e aggressioni, presenta anche numerosi autoritratti in cui Ligabue mostra il proprio volto in tutti gli aspetti del dolore fisico e psichico. Sono circa 80 le opere esposte, ricche di intensa forza espressiva e di prorompente energia cromatica.
La rassegna coglie uno degli aspetti più intimi e importanti dell’opera di Ligabue, e lo annuncia in modo straordinario con una sola parola, ‘ruggito’: il suo ruggito, il ruggito dell’animale ritratto che è il suo modo di narrare l’asprezza del mondo. La vicenda umana del pittore, tra abbandoni familiari e disturbi psichici ebbe una svolta significativa, quando nel 1928 incontrò il pittore Renato Marino Mazzacurati, illustre esponente della prima “Scuola Romana” il quale comprese l'arte genuina di Ligabue e gli insegnò l'uso dei colori ad olio guidandolo verso la piena valorizzazione del suo talento.
“Quando dipingeva animali feroci – ha ricordato Marino Renato Mazzacurati - Ligabue si identificava con loro a tal punto da assumerne gli atteggiamenti. Ruggiva spaventosamente, e imitava il leone, la tigre, il leopardo nell’atto di azzannare la preda. Sorprendente era la sua conoscenza della struttura anatomica degli animali, dei loro istinti, della loro forza”. A far da contrappunto i suoi autoritratti in cui accumula energia vitale, preleva dal fantastico che si affolla nella sua mente. Ligabue con le belve e l’autoritratto riporta,forse, agli arcaici, preistorici significati del figurare: dipingere qualcosa significa possederla, in un certo senso, appropriarsene o almeno cercarne il possesso, evocare, esorcizzare, propiziare l’acquisizione. Ligabue sembra dipingere per possedere, lui che era privo di tutto.
Anche l’autoritratto, vertice e rivelazione di un uomo che si presenta senza difese al dramma dell’esistenza, è frequente nella sua produzione e forse è stato così spesso dipinto per dimostrare di possedersi o per poter affermare di possedere, o almeno favorire, il dominio di sé che spesso gli sfuggiva. Nelle sue opere si sente la forte influenza di Henri Rousseau detto il Doganiere, che incarna il prototipo dell’artista ingenuo e geniale. Mentre nella nutrita serie di autoritratti si avverte una certa attenzione a Van Gogh, cui forse Ligabue si sentiva affine. Come ha sottolineato Vittorio Sgarbi “Ligabue va considerato un autonomo continuatore del filone espressionista italiano, anche se naturalmente lontano dalle cerchie intellettuali che lo hanno promosso”.
In questa linea credo che vada letta l'opera di Ligabue, ben esemplata nella mostra di Pitti. Un pittore che non è o, non è soltanto frutto inevitabile della malattia psichica, ma un artista dotato di una sua cultura da autodidatta che lo ha posto in un rapporto dialettico con la natura e la società. di Alessandro Lazzeri