Malaparte torna sul palcoscenico della nostra storia letteraria, spesso insofferente e ferito da polemiche. L'autore di Kaputt, di Maledetti toscani, della Pelle, dei Racconti che narrano una Prato poetica e innocente, lontana dalla luce sinistra degli ultimi decenni, è sempre stato considerato il giusto, se non criticato, forse a causa della sua indole drammatica e dal suo modo di porsi. Al di là di questo Malaparte è stato un ottimo romanziere, un bravo giornalista. Come cronista collaborò al Corriere della sera e fu direttore de La Stampa, a Torino, come romanziere, invece, fu uno degli innovatori della narrativa novecentesca.
I suoi romanzi, in parte ispirati dalle violenze del suo tempo, sono il frutto alchemico del giornalista e dello scrittore. Opere come La pelle sono, infatti, dei reportage romanzati su drammatici eventi storici, come nel caso della Napoli narrata del 1942/43, ferita dalla guerra, vittima dell'ultima eruzione del Vesuvio che, Curzio Malaparte, descrive con la meticolosità del cronista e con la poeticità drammatica del romanziere. Un connubio, una alchimia, un legame indelebile che è alla base della sua poetica.
Sì, insomma si tratta di una penna, quella sua, tutta particolare, di difficile collocazione all'interno del panorama letterario del nostro paese. A cominciare dai romanzi, dove la narrazione degli eventi sviluppata in prima persona si sostituisce, con arguzia, alla terza persona, vale a dire al modo classico della narrativa. Uno sperimentalismo, il suo, che lo accompagnò per tutta la carriera, sia giornalistica sia letteraria, pronto a mettersi in gioco con molta facilità e con impeto drammatico, tanto da condurlo a girare un film: Il Cristo Proibito.
Pellicola che non mancò di attirare l'attenzione di critici e dei letterati che la boicottarono dandole la definizione di film antistorico e violento. Insomma, una personalità controtendenza, così nell'arte così nella vita, che lo ha visto protagonista di se stesso, incarnare la dottrina fascista e poi indossare i panni dell'indignato, che lo vide ora ateo ora credente. Amante della dolce vita, tanto per usare un eufemismo felliniano, non mancò di vivere ogni stagione storica sino in fondo, sino a rasentare l'impossibile, con mille contraddizioni, sino a tradurre ciò che viveva in letteratura, come nel caso dell'Arcitaliano: unica opera da lui edita in versi.
Il dibattito che si è aperto all'inizio del mese scorso, a distanza di cinquant'anni dalla sua morte, ora ha un senso, una profonda ragione, forse più di prima: quella di rivalutare non solo un grande scrittore, la cui poetica si distaccava dalle altre, ma di fare luce su uno dei personaggi più originali dell'Italia e della nostra regione in particolare. Insomma, si tratta sicuramente di una disputa di ampio respiro, lontana da ogni sorta di cattivo revisionismo, un modo per rendere immortale chi immortale lo è già.
Iuri Lombardi