Firenze - Tredici donne raccontano in quanti modi si può vivere il cancro al seno. Angoscia, disperazione, coraggio, sollievo, perfino allegria. Ma soprattutto con la richiesta, rivolta in particolare alle strutture pubbliche, di non trattare le pazienti come numeri, bensì con un po' di umana comprensione, con un'assistenza psicologica adeguata.
Questo collage di esperienze e stati d'animo è ora raccolto in un documentario in DVD (titolo: La parola riconosciuta) ideato e realizzato dal Centro Studio e Prevenzione Oncologica (CSPO), struttura di riferimento dell'Istituto Toscano Tumori che fa capo alla Regione.
L'iniziativa, la prima nel genere in Italia, è destinata agli operatori ed è stata presentata stamani a Firenze a conclusione del congresso nazionale Attualità in Senologia, al quale hanno partecipato oltre 1500 specialisti.
"Le pazienti sono cambiate", dice il dottor Eugenio Paci (CSPO) che ha curato il DVD, "Prevenzione più diffusa e i progressi in chirurgia e terapia hanno spostato il problema principale: anni fa era la sopravvivenza, oggi è la convivenza con la malattia".
Protagoniste del filmato tredici donne tra i 45 e i 60 anni, residenti a Firenze e provincia, curate oppure operate due o tre anni fa, alcune vittime di ricadute, altre che hanno trovato aiuto nell'oncoplastica e nella ricostruzione del seno.
Come hanno saputo, che cosa ha significato la malattia, come ha cambiato la loro vita e quella della famiglia, come sono state assistite, come si sentono adesso. Queste le domande alle quali le tredici ex pazienti hanno accettato di rispondere con nome e cognome, senza imbarazzo o falso pudore, nella convinzione di contribuire alla qualificazione del sistema sanitario.
"Avevo la mia bella vita, un sacco di hobby. Poi è capitata questa cosa ed è tutto finito", racconta una del gruppo.
Esita a chiamare la "cosa" col suo nome, ma come le altre dà l'impressione di una gran lucidità.
Chi lo ha capito dai sintomi, chi lo ha saputo dalle analisi. Dice un'altra: "Quanto ti mandano a chiamare e ti prelevano il siero ci vorrebbero sistemi diverse, altre attenzioni. Ti comunicano la sentenza, ti danno una lista di chirurghi e ti lasciano sola col tuo sgomento".
E ancora: "Ci vuole un tutor, qualcuno che aiuti le pazienti all'inizio e le accompagni poi nei difficili percorsi della sanità.
Medici e infermieri sono per lo più gente di cuore, senz'altro preparati per curarti. Però all'inizio non c'è nessuno che ti aiuti ad assorbire il colpo. Quando è capitato a me è stato orribile. Ero col morale a pezzi e non un cristiano a offrirmi sollievo".
Il primo problema di tutte è in effetti capire che cosa esattamente è accaduto. "Come mai proprio a me? Perché?". Poi ci sono il marito, i figli, la necessità di spiegare, l'angoscia che rischia di comunicarsi a tutta la famiglia, il desiderio di non allarmare mischiato al desiderio di conforto, la paura confusa con la voglia di restare attaccate alla vita, di non dire addio alla speranza.
"Temevo che mio marito si spaventasse".
"Non volevo creare problemi al mio figliolo". "Quando ho saputo ho pensato ai miei nipotini". Tante risposte diverse, ma uguali nella sostanza. Anche nel momento più drammatico nelle donne prevale il senso materno, l'istinto a prendersi cura, a caricarsi del problema familiare. Smorzando i toni, annegando i timori, fingendo.
Molte ricordano addirittura in positivo i mesi passati con l'angoscia "A me la vita non è cambiata", dice una sorridendo. "Mi sono sforzata di campare giorno per giorno", aggiunge un'altra.
E una terza: "Quando mi hanno detto che ero guarita ho pensato: ce l'ho fatta". Qualcuna si considera perfino fortunata: "Ho anche trovato un buon chirurgo plastico, anche se il risultato non è il massimo". E alcune dicono la frase che forse più colpisce: "Ora non mi fa più paura niente".