La cucina etrusca? Non male, anzi davvero saporita. E piaceva anche ai Romani. E’ grazie a loro, ed alle loro testimonianze che oggi è possibile ricostruire per deduzione usi e pietanze al centro del convegno “Archeologia a tavola” in programma sabato 30 settembre nella Cattedrale di Chiusi. Manca una letteratura gastronomica di reale matrice etrusca: piuttosto è possibile rifarsi a quanto annotato nel trattato “De re coquinaria” (Intorno alla gastronomia) di Marco Gavio Apicio (I sec.
a C. – I sec. d. C.) è uno dei pochi documenti gastronomici a noi pervenuti, dove lo stesso Apicio racconta la realizzazione di alcuni piatti tramandati dal passato dando consigli da seguire in cucina: pare ad esempio che gli uccelli dovevano essere cotti con le penne. Oggi, a due millenni di distanza dal “De re coquinaria”, sembra esserci un ritorno alle ricette antiche, tanto che è possibile consultare alcune ricette dell’antico gastronomo romano su internet.
Sicuramente questo Apicio non l’avrebbe mai immaginato.
Una cosa è certa, gli etruschi come i romani, mangiavano molta carne e per nascondere il cattivo sapore che spesso questa prendeva, vista la mancanza di mezzi adeguati per la sua conservazione, facevano uso e abuso di salse molto elaborate.
Racconta così il professor Roberto Caprara, già ordinario di Archeologia all’Università di Sassari ed attuale coordinatore scientifico per il nascente Museo delle Attività produttive di Chiusi: “gli ingredienti più usati per la loro realizzazione erano le spezie, ma anche alcune piante come ad esempio il silfium che cresceva solo in Cirenaica, e si estinse per l’uso smodato che se ne faceva; da questo si otteneva un succo pregiato il laserpitium o laser, il cui sapore molto forte pare fosse simile a quello dell’aglio”.
Pare che in quasi tutte le ricette di Apicio inoltre ci fosse il liquamen o garum, che era una salsa di pesce che oggi, secondo alcuni gastronomi moderni, potrebbe essere assimilata alla salsa di soia o salsa Worcester.
Il liquamen, che era la base della cucina romana probabilmente sostituiva il costosissimo sale e si otteneva facendo macerare e fermentare al sole interiora e pezzetti di pesce di vario genere posti in un recipiente di terracotta. La poltiglia veniva mescolata continuamente e quindi posta in un cestino a trama fitta – simile alle fiscelle per i formaggi o la ricotta – da cui filtrava lentamente un liquido, il liquamen, che veniva raccolto in anfore sigillate e conservato in cantina. Apicio lo consiglia addirittura nei dolci: lo si ritrova infatti nella sua ricetta per la torta di pere.
Ed ancora si sa di una salsa di castagne che veniva usata per condire legumi o cereali lessi, come fagioli, ceci, farro. Anche l’agnello veniva servito con salsa, oppure accompagnato dalle prugne secche di Damasco, che oggi si importano dagli Stati Uniti.
Ma cosa si mangiava nell’antica Etruria nella vita di tutti i giorni? Molto frequenti erano le minestre di cereali e legumi, come le gustose zuppe di verdura: ne è un ricordo l’acquacotta, uno dei piatti della tradizione culinaria viterbese.
Le sfarinate di cereali erano utilizzate per fare frittelle e focacce. La carne, soprattutto di maiale, era bollita in grandi calderoni dai quali veniva estratta con uncini o arrostita su lunghi spiedi. Corniolo, prugna selvatica, prugna damasca, ghiande, vite e fichi erano alcuni dei frutti preferiti ti dagli etruschi. Farro, grano, vite e olivo erano le colture principali.
Il farro e il grano erano considerati i migliori di tutta la penisola italiana. Il grano aveva un peso specifico migliore di quello della Val Padana, rinomata per la sua produzione del tipo “tenero”.
Olio e vino, che anche oggi sono una delle risorse economiche più importanti della zona di Chiusi erano due alimenti base della cucina degli etruschi. Ma a quel tempo era famosa anche l’uva Pompeiana: in realtà da Plinio si deduce che il vitigno da cui nasceva tale uva era originario della zona di Chiusi, e solo successivamente fu esportato in Campania, alle falde del Vesuvio.
Le raffigurazioni pittoriche della tomba Golini I di Orvieto databili alla seconda metà del IV secolo a.C., ci offrono una visione interessenza delle attività di cucina di un’importante famiglia dell’aristocrazia: sulle pareti sono rappresentati i servi che fanno a pezzi la carne con una piccola ascia, altri che preparano i cibi sotto lo sguardo attento di una donna: preparano focacce, cuciono le cibarie nel forno, mescolano le bevande nelle brocche.
Nelle altre pareti appaiono i loro padroni, seduti o sdraiati sulle Klinai, i letti triclinari del banchetto, in compagnia delle proprie donne dalle ricche vesti, serviti da schiavi nudi e allietati da suonatori di lira e tibicines (flauti doppi).
Curiosità dalla cucina etrusca:
Castagne: dette “Noci di Sardi” , “Noci di Giove” o “Noci a cupola”, a volte riunite a gruppi di due o tre nella cupola erano simbolo di coesione familiare.
Gallo cedrone: un animale molto rispettato perché si credeva che dalla saliva che cadeva a gocce dal suo becco avessero origine le pietre preziose o i serpentelli.
Uovo: con l’uovo si cominciava i banchetti, questo rappresentava i due emisferi dell’evoluzione e dell’involuzione, dalla nascita alla morte.
Lepre: era una animale privilegiato, si credeva che potesse cambiare sesso spontaneamente.
Ghiande: gli etruschi traevano auspici dai tonfi più o meno soffici del cadere delle ghiande sul terreno.