FIRENZE - Dopo l’intensa pièce dedicata a Dino Campana allestita lo scorso Febbraio, la regista e attrice Elisabetta Salvatori torna a frequentare quei personaggi al di fuori di qualsiasi etichetta. Un teatro, il suo, che indaga fra le pagine più originali della cultura italiana, e incidentalmente affronta lo scomodo tema del diverso. Questa volta, in Delicato come una farfalla e fiero come un’aquila - lo spettacolo andato in scena il 23 novembre al Teatro di Cestello -, sceglie Antonio Ligabue, pittore naif dall’ineffabile talento, ma che in vita conobbe sventure d’ogni sorta.
Muovendosi in un una scenografia dalla toccante semplicità - una sedia, un cavalletto, e una scatola di colori -, Salvatori accompagna il pubblico in un’atmosfera umana d’altri tempi, in una vita che sembra favolosa, attraverso uno spettacolo che sprigiona un’aggraziata maturità espressiva, e avvolge con la poesia le sofferenze di colui che fu un uomo e un artista inappartenente, lontano dal vivere comune. Vestita di bianco come una tela. Così Elisabetta Salvatori si presenta sul palco, e confessa che probabilmente lo stesso Ligabue si sarebbe mostrato contento che la sua avventura venisse narrata da una donna, uno di quegli esseri che desiderò per tutta la vita, senza mai riuscire a possederne una.
L’autrice opta per la narrazione scenica, la più congeniale a uno spettacolo così intimo da sembrare una storia di tempi lontani, narrata attorno al fuoco nelle sere d’inverno. E invero, anche il Teatro di Cestello, situato nella Vecchia Firenze, si presta a evocare atmosfere del genere. Ad accompagnare la scansione dei giorni amari di Antonio Ligabue, il lieve accompagnamento musicale di Matteo Ceramelli al violino, e Sergio Branchi alla fisarmonica. Due strumenti idealmente legati al pittore; il violino, per quella delicatezza di suono che ricorda la sua sensibilità d’animo; la fisarmonica, in quanto strumento di musica popolare, rievoca le atmosfere giocose della Bassa Padana, dalle quali però Ligabue restò escluso. Nato il 18 dicembre 1899 nelle vicinanze di Zurigo, dove la madre si era rifugiata a seguito dell’abbandono del padre naturale del figlio, Antonio conobbe un’infanzia dolorosa segnata dalla povertà.
All’età di un anno venne affidato a una coppia svizzera, i Gubel, probabilmente su volontà del nuovo marito della madre, tale Bonfiglio Laccabue, emigrato italiano in Svizzera, ma originario di Gualtieri. Tuttavia riconosciuto dall’uomo, Antonio ne assunse il cognome. La denutrizione dovuta alla povertà della famiglia adottiva lo segnò nel fisico, lasciandolo debole e malaticcio. A margine della narrazione della vicenda di Ligabue, si percepisce la pietà che l’autrice prova per quell’ambiente sociale segnato dalla povertà, dalla durezza di una vita che porta a cancellare gli affetti, ad abbrutirsi nella fatica.
Lo spettacolo diviene anche indagine sociologica in quelle parti descrittive della situazione degli emigrati italiani in Svizzera. Timido e introverso, già a scuola manifestò le prime crisi comportamentali, e quando la situazione divenne intollerabile, fu espulso dalla Confederazione Elvetica nel 1919, con foglio di via per Gualtieri. Vi arrivò nell’agosto del ’19, e subito fu affascinato da quella pianura piena di sole, pioppete, animali, e il Po, il grande fiume che scorreva placido come un nastro d’argento.
Ma la Bassa è terra ardente, intrisa di socialismo romantico e amore per la vita, dove abita un popolo fiero e godereccio insieme. Il Toni, come Ligabue è conosciuto, viene presto additato come il matto del villaggio, inadatto com’è a lavorare, perso in un mondo tutto suo. Ben presto si ritira a vita solitaria in una capanna sul Po, con solo alcuni cani ad alleviare la sua solitudine. È questo il suo periodo più difficile, sette anni di sofferenze fisiche e morali, deriso da tutti e costretto, per sopravvivere, a cibarsi di gatti.
Unico passatempo, la pittura. Una vicenda umana toccante, che Salvatori narra con grazia, rievocando le notti a guardare le stelle sul Po, le sofferenze fisiche che si infliggeva, il costante bisogno, sempre inappagato, di avere una donna accanto a sé. Una prima svolta, quando il direttore di un circo di passaggio gli chiede di dipingere un cartellone. Lo fa con entusiasmo, effigiando una tigre, che firmerà con il nome di Antonio Ligabue, rifiutando quel Laccabue che, di fatto, lo aveva allontanato dalla madre naturale. Ligabue nella vita non ebbe certezze; soltanto di una cosa era sicuro, della forza della sua arte.
E quest’idea di colori splendenti, di paesaggi infiniti, di animali favolosi, aleggia nella narrazione di Salvatori, ne diviene il perno estetico e concettuale. I suoi quadri li racconta con sentimento, dando voce ai colori, e a quegli sguardi dei suoi autoritratti che catturano l’anima. Mazzacurati, esponente della Secessione Romana, notò il suo talento, e lo sostenne in ogni modo, ospitandolo nel suo studio, fornendogli i mezzi per dipingere, presentandolo a critici e collezionisti. Da allora, le sue condizioni di vita migliorano sensibilmente, fino a quando, nel Dopoguerra, il suo nome si afferma definitivamente nel panorama dell’arte italiana.
Il suo personalissimo stile naif, lontano dalle sperimentazioni delle avanguardie, affascina gli esperti e le persone comuni. Merito, questo, dell’umiltà che Ligabue infonde in ogni sua tela, della volontà che vi mette di esprimere sé stesso. La prima personale, a Roma nel ’62, gli dà fama e benessere, ma giunge troppo tardi. Colto da paralisi, l’artista muore dopo lunga malattia nel maggio del ’65, all’ospizio di Guastalla. La poesia di Salvatori esprime nel finale tutta la sua delicatezza, con il racconto di un funerale al suono della banda del paese, con il cielo piovoso che si rasserena per un ultimo saluto, e il corteo idealmente chiuso da quegli animali che Ligabue aveva amati, protetti, e ritratti, le uniche creature che in fondo lo avessero veramente compreso.
Un’immagine commovente, che da sola dà la cifra dello spettacolo. Chi fu Ligabue? Un poeta, un visionario, un pittore, un solitario, un sognatore. Mica è poco. Alla chiusura del sipario, applausi entusiastici e meritati per un allestimento dall’elegante semplicità e dalla profonda forza espressiva. È teatro d’autore, quello di Elisabetta Salvatori e altri come lei, che racconta di uomini veri, un teatro sul quale la critica dovrebbe investire più spazio e più tempo d’indagine, e diffondere nel pubblico quell’amore per la cultura che invece latita.
Troppo spesso, infatti, ci si sofferma sulle numerose rodomontate dei grandi nomi, più o meno prestati al teatro, tralasciando colpevolmente autori che riscoprono pagine importanti dell’umanità. Niccolò Lucarelli