FIRENZE - La Russia, una nazione estesa quanto un continente, che ha nelle grandi distanze un elemento d’indubbio fascino, e che all’inizio del Novecento era ancora in larga poco conosciuto, soprattutto nelle sue regioni dell’Asia Centrale e dell’Oriente siberiano più estremo. Un territorio ancora abitato da popolazioni nomadi dedite alla pastorizia, che avevano nello sciamanesimo il punto focale di comunione con la natura, e conservavano anche un vasto patrimonio di tradizioni, linguaggi, riti animistici e ataviche leggende.
Fu questa situazione ancora “primitiva”, incontaminata, ad attrarre l’interesse di numerosi giovani artisti, fra i quali spiccavano, fra gli altri, Leon Bakst, Pavel Filonov, Kazimir Malevič e Wassily Kandinsky. Uomini che avvertivano la necessità di rinnovare l’arte guardando al passato, e attingendo alle loro radici asiatiche. Al di là dei confini russi, guardavano con interesse anche alla teosofia indiana, al buddismo, alla delicatezza delle stampe giapponesi e cinesi. Proprio per fare luce su un aspetto poco frequentato della storia dell’arte, la Fondazione Palazzo Strozzi ha promossa L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente, una mostra curata da John E.
Bowlt e Nicoletta Misler, che esplora le complesse radici del movimento avanguardista russo, particolarmente attento alla vastità del patrimonio antropologico della sua nazione. Artisti, questi, che con poeticità e sentimentalità tutta slava - scevra di biechi scopi nazionalistici -, riscoprono la Russia arcaica, ancestrale e geologica, un paesaggio adamitico che sembra uscire dai primissimi giorni dell’era umana, senza però dimenticare le culture d’oltreconfine. Interessante elemento che emerge dall’esposizione, è la politica di unità e concordia, nel rispetto delle diversità etniche, portata avanti dall’ultimo Zar Nicola II, sovrano galantuomo ma ingenuo, che aveva permessa la conservazione delle varie tribù e popolazioni dell’Impero.
Un clima che cambierà di lì a poco, l’avvento della dittatura comunista, e le successive divisioni e deportazioni di intere popolazioni operate da Stalin. Sia detto per inciso, contemporaneamente alla fascinazione per l’Oriente, gli artisti russi d’inizio secolo provavano un certo interesse per le esperienze dei loro colleghi europei, e il Raggismo cui più tardi approderanno, fra gli altri, Larionov e la Gončarova, ha molti punti di contatto con il Futurismo italiano. Dieci le sezioni della mostra, che illustrano la complessa rete di relazioni e conseguenti ispirazioni fra arte russa e realtà etniche, religiose e naturali, siberiane ma anche cinesi, indiane, giapponesi, indocinesi.
Dalle danze siamesi di Bakst ai tori sacri di Vatagin, alle vedute indiane di Kravčenko, passando per le illustrazioni di ambiente siberiano di Vera Chlebnikova, sfila davanti agli occhi del visitatore un suggestivo universo naturale e filosofico. Il recupero della tradizione attraverso l’avanguardia. Questa apparente contraddizione è il leit-motiv della mostra, che propone le diverse riletture artistiche delle culture primitive e orientali. L’Avanguardia russa riesce a catturare l’essenza del primitivismo e dello sciamanesimo, rileggendoli alla luce delle esperienze contemporanee europee, come ben si evince dal Dio della fertilità, un olio su tela eseguito da Natal’ja Gončarova con la tecnica cubista che ritrae un idolo delle tribù dell’Asia Centrale.
In quest’incontro di culture diverse, si può leggere la capacità di sintesi e la forza espressiva che l’arte accademica aveva smarrite da tempo. Evidente l’influenza delle stampe cinesi che emerge ad esempio in Natura morta con stampa cinese, olio su tela di Natal’ja Gončarova, dove si crea l’illusione della dualità, fra ambiente reale e la stampa riprodotta. Nella tela Primavera, Vladimir Burljuk porta all’estremo la rappresentazione del paesaggio naturale cinese con la sua eleganza leziosa e retrò, in favore di un tratto stilizzato con cui riprodurre gli elementi vegetali, e quello sfondo rosa a ricordare il colore dei fiori di pesco. Ma un artista non assolve necessariamente soltanto il suo compito d’indagine figurativa, riuscendo talvolta a lasciare testimonianze dal molteplice valore.
È il caso di Vasilij Vereščagin e Nikolaj Karazin, le cui opere costituiscono ancora oggi un importante archivio di documentazione etnografica sugli usi e i costumi delle popolazioni della steppa, da loro visitate nella seconda metà dell’Ottocento. Un’arte a carattere civile, che trova il suo specchio nelle tradizioni popolari, sempre affrontate con autentica partecipazione emotiva, che conferisce alle opere una profonda verità. L’esperienza dell’Avanguardia russa ebbe però una brusca fine: in forte difficoltà dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il movimento conclude la sua avventura nell’Aprile del 1932, quando il Soviet di Mosca decreta lo scioglimento delle associazioni artistiche indipendenti.
Una mostra dall’ampio respiro poetico, che apre al visitatore orizzonti vastissimi, e che si inserisce nella tradizione ormai storica dei rapporti tra la città di Firenze e la Russia, particolarmente vivaci nella seconda metà del XIX Secolo, e che ebbero nei principi Demidoff i rappresentanti più blasonati. La mostra, realizzata in collaborazione con il MiBAC, il Museo Statale Russo di San Pietroburgo e la Galleria Statale Tret’jakov di Mosca, è visitabile dal 27 settembre al 19 gennaio 2014.
Tutte le informazioni su orari e biglietti sul sito www.palazzostrozzi.org di Niccolo' Lucarelli