La ricerca sulle malattie delle ossa fa un importante passo avanti grazie a uno studio su scala europea al quale ha dato un contributo determinante l’Italia, in particolare l’Unità Operativa Malattie del Metabolismo Minerale e Osseo dell’Ospedale di Careggi, diretta dalla professoressa Maria Luisa Brandi. Ne dà notizia l’ultimo numero della nota rivista scientifica Nature, in un articolo dedicato al cosiddetto Morbo di Paget.
Il titolo: Paget Genes in Nature Genetics. Il Morbo di Paget è un’importante malattia del metabolismo osseo, relativamente comune, ovvero con una incidenza del 2 per cento nella popolazione europea oltre i 55 anni. La malattia causa lesioni ossee diffuse a vari segmenti scheletrici. Se non curate in tempo, provocano danni articolari e fratture, oltre ad aumentare l’incidenza di osteosarcomi, vale a dire di tumori maligni delle ossa. La ricerca aveva già identificato il gene SQSTM1, responsabile, però, solo del 40 per cento delle forme familiari.
L’assenza di informazioni sul rimanente 60% non permetteva dunque di intervenire precocemente nei portatori del gene, con farmaci che inibiscono il riassorbimento osseo e che prevengono l'instaurarsi di lesioni destinate a diventare irreversibili. Adesso l’obiettivo si avvicina. Lo studio europeo pubblicato da Nature ha inaftti valutato l’intero genoma umano in un ampio numero di famiglie nelle varie nazioni della Comunità, mettendo in luce 7 nuove regioni genetiche che si legano con il Morbo di Paget, e spiegando così un ulteriore 13 per cento dei casi familiari. In questa ricerca tecnologicamente molto avanzata si è rivelato fondamentale il ruolo dell’Italia, perché l’equipe dell’Ospedale di Careggi, sostenuto da F.I.R.M.O., la Fondazione Raffaella Becagli di cui la professoressa Brandi è presidente, ha lavorato per anni a collezionare le famiglie italiane affette dal Morbo di Paget. “Questo risultato è importantissimo”, spiega la professoressa, “Amplifica infatti la possibilità di individuare i portatori della malattia.
Che, essendo a espressione lenta e manifestandosi di solito in età matura, non saremmo in grado di riconoscere se non quando ha già prodotto lesioni ossee”.