Said Damber aveva 26 anni quando, all’uscita di un incontro di calcio nel dicembre scorso, fu coinvolto in scontri con la polizia; casualmente, dicono i testimoni locali, sembra fosse seduto ad un bar. Ma Said era saharawi, la polizia quella marocchina, simbolo di un’autorità contestata dalla popolazione locale. Said è morto, e nessuno sa perché: le autorità negano l’autopsia, e non riconsegnano il corpo ai familiari. A piangerlo restano gli anziani genitori e altri dieci fratelli.Una di loro, Jamila, è venuta in Italia a chiedere solidarietà e aiuto.
Vogliono qualcosa di più di una foto sfuocata dove si intravede il volto tumefatto di Said; vogliono un corpo, e un funerale degno per quel figlio, per quel fratello. Sono questi sentimenti, “quelli di una mamma come sono anche io” dice l’assessore Cristina Scaletti, ad aver condotto ad un incontro con Jamila qui a Firenze; per confortare, se possibile, per raccogliere l’invito a parlare di questo fatto, a cercare di costruire un movimento di opinione che possa fare recedere le autorità del Marocco dalla loro posizione intransigente.
“Mi ha colpito di questa storia – aggiunge l’assessore – la somiglianza con tante altre che stiamo vivendo anche qui da noi: le storie di morti in carcere senza spiegazioni, come quella di Daniele Franceschi in Francia, di Stefano Cucchi, di Giuseppe Uva. Morti ingiuste al di là di ogni valutazione di innocenza o colpevolezza, morti che lasciano il vuoto soprattutto nelle vite di mamme e di babbi. Un vuoto non riempito nemmeno dalla consolazione di un perché”. Jamila è scortata nel nostro paese dal rappresentante della Repubblica Araba Democratica del Saharawi, Abdallahe Mohamed Salem; la rivendicazione politica, giusta, vuole la sua parte.
Ma ora è più il tempo del dolore, e di cercare rimedi per sanarlo