L’abbondanza attuale in Europa di specie animali e vegetali non-indigene è legata allo sviluppo economico e demografico di diversi decenni fa. È quanto dimostra uno studio internazionale pubblicato il 20 dicembre negli Stati Uniti sulla rivista PNAS (“Proceedings of the National Academy of Science” (“Socioeconomic legacy yields an invasion debt”), a cui ha partecipato, insieme ad altri 15 autori di tutta Europa, anche Francesca Gherardi, ricercatrice del Dipartimento di Biologia Evoluzionistica “Leo Pardi” dell’Università di Firenze.
La ricerca è frutto del progetto triennale Delivering Alien Invasive Species Inventories for Europe finanziato dall’Unione Europea, all’interno del VI Programma Quadro di Ricerca e Sviluppo tecnologico, per creare un inventario completo delle specie introdotte, intenzionalmente e non, in Europa con lo scopo di monitorare quelle invasive, potenziali minacce per l’ambiente, l’economia e la salute dell’uomo. Lo scorso giugno un’altra pubblicazione, sempre su PNAS nell’ambito del progetto DAISIE, aveva dimostrato che l’aumento esponenziale dell’ingresso in Europa di specie non-indigene è legato molto di più all’incremento della ricchezza e della popolazione e al moltiplicarsi degli scambi internazionali di uomini e merci piuttosto che ai cambiamenti climatici.
Questi ultimi, infatti, non bastano da soli a spiegare perché specie vegetali e animali si insedino in un ambiente piuttosto che in un altro, causando, nei casi cosiddetti “invasivi”, alterazioni irreversibili agli ecosistemi che possono determinare l’estinzione delle specie indigene, costi elevati alla società e danni alla salute umana. La ricerca pubblicata pochi giorni fa approfondisce i risultati raggiunti e afferma che i fattori socioeconomici più determinanti sono quelli del passato piuttosto che quelli del presente.
Utilizzando dati relativi a 10 gruppi tassonomici (piante vascolari, muschi, funghi, uccelli, mammiferi, rettili, anfibi, pesci, insetti terrestri e invertebrati acquatici) in 28 paesi europei i ricercatori hanno, infatti, dimostrato che intercorre un lasso di tempo tra l’introduzione di una specie in un territorio e la sua naturalizzazione e diffusione. Tale ritardo suggerisce che invasioni determinate dal comportamento economico di oggi potrebbero richiedere molto tempo prima di manifestarsi pienamente, causando quello che i ricercatori hanno chiamato “debito delle invasioni”. I ricercatori hanno selezionato e analizzato tre indicatori delle attività socio-economiche associate alle invasioni (densità di popolazione; PIL pro capite; quota delle esportazioni sul PIL) documentando che l’abbondanza attuale di specie esotiche è meglio spiegata da dati socio-economici del secolo scorso piuttosto che da quelli del tempo presente.
L’importanza del passato varia ovviamente tra gruppi tassonomici: quelli in possesso di buone capacità di dispersione (come uccelli o insetti) sono più associati a fattori recenti. Tuttavia, i risultati della ricerca suggeriscono che l’eredità del passato si esplica per la maggior parte dei gruppi di specie analizzati. “L’ampia copertura tassonomica e geografica indica che il debito delle invasioni è un fenomeno assai diffuso - spiega Francesca Gherardi - l’inerzia riscontrata tra l’introduzione di alcune specie e i suoi effetti è preoccupante in quanto ci fa prevedere che l’attuale incremento delle attività socio-economiche produrrà un livello sempre crescente di invasioni nei decenni a venire, anche se la frequenza di nuove introduzioni potrebbe essere ridotta con successo”.
“I semi dei danni delle invasioni sono già stati piantati – continua la Gherardi - lo sforzo per controllare le specie invasive deve essere dunque esteso, non solo rispetto a quelle considerate oggi più dannose, ma anche sviluppando strategie di ‘segnalazione precoce’ e di ‘rapida risposta’ per specie già presenti sul territorio in modo latente ma destinate a produrre presto minacce”.