La decisione di Obama di inviare 30.000 soldati e contemporaneamente di fissare una data per il ritiro, luglio 2011, si pone come uno degli snodi fondamentali attraverso cui si definirà l’assetto geopolitico mediorientale. Si aspettano le risposte da parte delle altre potenze mondiali come Iran e Cina, che finora, a differenza di Pakistan e India, hanno esercitato pressioni più dal punto di vista economico che da quello politico. Ma quali sono le possibilità di un exit strategy che fissa un termine per un conflitto che si sta sempre più inasprendo? Questa è una delle domande a cui hanno cercato di rispondere nella Sala della Miniatura di Palazzo Vecchio Luciano Bozzo, docente della facoltà “Cesare Alfieri” di Firenze, Luigi Vittorio Ferraris, ambasciatore e docente universitario, Massimo Toschi, assessore alla Cooperazione internazionale della Regione Toscana, e l’On.
Valdo Spini, organizzatore dell’incontro insieme al suo Gruppo SpiniperFirenze, in occasione della presentazione del libro ‘Mille giorni a Kabul’ (Rubettino Editore, 2009). L’autore, presente anch’egli, è Nicola Minasi, un segretario di legazione di 36 anni che partì per l’Afghanistan quando ne aveva solamente 32 e che dopo questa missione ha deciso di trasmettere la sua esperienza di giovane diplomatico del Ministero degli Affari esteri e soprattutto di uomo. Raccontare la realtà di una guerra estremamente complessa, come è quella in Afghanistan, non è facile e Minasi con il suo libro non pretende di risolvere i molteplici interrogativi che si pongono parlando di uno specifico stato di conflitto, ma cerca invece, più umilmente, di riportare le sensazioni e le impressioni di un funzionario che ha potuto osservare il teatro di guerra da una posizione privilegiata.
Descrivendo l’esperienza diretta dell’autore, tornato a casa nell’autunno del 2008 dopo circa tre anni di missione, il libro offre al lettore lo spunto per un riflessione sulle vicende umane e politiche che sottendono le relazioni tra gli attori istituzionali e non nell’Afghanistan post-2001. Gli eventi sono narrati con un profondo senso di umanità verso la realtà afghana, ma anche con una buona dose di cinismo nei confronti di quella ‘carovana internazionale’ incapsulata dalla propria autoreferenzialità, che nelle parole di Minasi si mostra in tutte le sue contraddizioni e antinomie organizzative.
Leggendo le pagine del libro ci si confronta con le difficoltà dell’autore ad uscire da quella realtà parallela fatta di cerimonie, meeting e pass legati al collo, per entrare a diretto contatto con chi la guerra prima di tutto la subisce, anche se la fa. Un interessante viaggio tra molti particolari che aiuta a ricordare quella che fino a qualche mese fa sembrava una guerra dimenticata. Alessandro Xenos