Firenze, sabato 24 maggio 2008– Superare il PIL come indicatore dello sviluppo e della crescita dei Paesi perché inadeguato, specialmente per le economie avanzate: è stato questo uno dei temi più dibattuti oggi a Terra Futura 2008, mostra convegno delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale, alla Fortezza da Basso (Firenze) sino a domenica 25 maggio. Un indice che non raccoglie tutte le informazioni indispensabili - a partire da quelle relative agli aspetti sociali e ambientali - per definire lo stato di salute e benessere di un Paese: è stato ripetuto a più voci nel corso del convegno “Liberiamoci dal PIL”, articolatosi lungo l’intera giornata.
Un’inadeguatezza riconosciuta dall’Unione Europea e sulla quale LUIGI BIGGERI, presidente Istat e special guest del convegno, si è espresso in questi termini: «Bisogna smettere di conferire al Pil valenze che non gli appartengono: si tratta di un indicatore nato per misurare la produzione e l’efficienza di mercato». Una critica che il presidente rivolge a tutti quegli economisti, sociologi e politici che al prodotto interno lordo chiedono di più, quando invece «esistono altri indicatori per misurare il benessere e la qualità della vita: usiamoli!».
Il compito della statistica ufficiale, secondo il numero uno dell’ISTAT, sta invece nel riuscire ad arrivare a una piattaforma comune: «Ci sono numerosissimi indici proprio perché molti sono gli aspetti che si vogliono misurare. In più, Paesi diversi si sentono rappresentati da indicatori diversi, a iniziare da quelli in via di sviluppo: anche a livello internazionale – continua - noi statisti ci scontriamo contro muri e ostacoli, ed è questa oggi la sfida: arrivare ad indicatori condivisi, in cui la gente si riconosca».
Biggeri sostiene che è difficile misurare il benessere, però qualcosa si può fare. «Come Istat, primi in Europa e forse primi nel mondo insieme ai canadesi, nelle rilevazioni sulle famiglie e gli individui abbiamo effettuato misurazioni di benessere economico sia di tipo oggettivo che di tipo soggettivo, e le due rilevazioni riferite alle stesse persone possono non coincidere». Per esempio, secondo l’indicatore oggettivo della povertà, cioè la “povertà relativa” (famiglie relativamente povere, ossia sotto uno standard che è quello della metà della media delle famiglie italiane), stanno molto peggio il Sud e le coppie con tre e più figli.
Secondo l’indicatore soggettivo, invece, non è così: nel Sud solo il 12,1% dichiara di sentirsi povero (versus indice oggettivo, ossia “povertà relativa”, pari a 22,4%); le coppie con tre e più figli che si sentono povere sono il 9,6% (versus indice oggettivo pari a 24,4%). «Dunque – riprende Biggeri - chi ha fatto tre figli “tutto sommato” ha trovato un modo per essere “felice”. Le relazioni con i parenti, gli amici e con il prossimo sono considerate prioritarie da tutti gli italiani.
Massima soddisfazione proprio verso questo indicatore, mente minima verso altri: per esempio, salute e pubblica amministrazione». Sul bisogno di un sistema coerente di misurazione sono ritornati anche Mani Tese e Coalizione Italiana Social Watch - organizzatori del convegno -, secondo i quali il ritardo dei Paesi (Italia in primis) nel raggiungimento degli Obiettivi della Campagna del Millennio dell’ONU dipende fra le altre cose dal fatto che non sappiamo misurare bene il benessere, che ogni Paese lo identifica in maniera diversa, e che tale valutazione dipende anche da chi la fa: economisti, statisti, sociologi…: «Il rallentamento rispetto agli obiettivi osservato dall’Onu nel 2005 conferma quanto abbiamo sempre sostenuto - precisa MARIAROSA CUTILLO di Mani Tese/Social Watch -, cioè che si deve riservare più attenzione ai diritti umani e alle politiche sociali, e questo riporta alla necessità di adottare gli indicatori che proponiamo ormai da anni».
Il Pil, inoltre, non fornisce alcuna indicazione rispetto alla distribuzione interna del reddito: questo l’aspetto sottolineato da SABINA SINISCALCHI della Fondazione Culturale Responsabilità Etica. «Si sta ampliando il gap fra ricchissimi e poverissimi in Italia, con il quinto più abbiente del Paese che detiene il 39,1% della ricchezza, e il quinto più povero il 7,8%. Una situazione che, accanto alla riflessione sulla scarsità delle risorse, ci impone anche di continuare a fare pressione sulle istituzioni politiche per una più equa redistribuzione delle stesse».
Una parzialità, quella del Pil, che diviene evidente quando si usano altri indici di sviluppo, e allora le mappe del benessere dei Paesi vanno riscritte in maniera drastica: lo dimostra ad esempio il Quars (indice di qualità regionale dello sviluppo) elaborato da Lunaria, uno dei principali promotori della Campagna “Sbilanciamoci”. «Il Quars – spiega TOMMASO RONDINELLA di Lunaria - valuta lo sviluppo di un territorio su misuratori altri: partecipazione democratica, salute, istruzione, educazione, qualità dell’occupazione e non più solo tasso di impiego, partecipazione democratica…».
Secondo MAURIZIO PALLANTE del Movimento Decrescita Felice, l’idea di sviluppo passa anche attraverso il concetto di decrescita economica quale chiave della felicità e si realizza innanzitutto con «tecnologie che accrescano l’efficienza delle risorse diminuendo l’uso di materie prime, dunque efficienza energetica, riduzione dei rifiuti, coibentazione degli edifici… La seconda area di azione – prosegue - riguarda gli stili di vita, dunque le scelte di sobrietà, autoproduzione e riduzione degli scambi commerciali a parità dei servizi.
Infine, fondamentale è il ruolo del governo locale, che deve agire attraverso delibere e atti dei consigli comunali, piani regolatori e energetici, ristrutturazione di edifici pubblici, regolamenti urbanistici». Tutti d’accordo quindi che il Pil sia stato usato indebitamente, tanto da diventare l’indicatore di riferimento che è oggi. Un problema dai contorni culturali, che chiama in causa la coscienza della società, cui spetta l’attività di pressione sulle istituzioni affinché si riapproprino di una capacità di analisi che vada oltre il Pil come unica misura di sviluppo e crescita complessiva dei Paesi.
«Mercoledì prossimo presenterò come tutti gli anni la “Relazione sulla situazione economica del Paese” alla Camera dei Deputati – ha annunciato BIGGERI -, dove ripeterò quello che ho detto altre volte. Nel corso delle diverse legislazioni ho già richiamato all’attenzione dei Governi la povertà relativa: se ne è discusso un po’, e poi il silenzio… Ho portato all’attenzione i “jobless”, perché ci sono quasi 700 mila famiglie in Italia senza nessun occupato; ho portato all’attenzione il problema della casa per i giovani, che se vanno in affitto pagano anche 700 euro in media al mese.
Mercoledì prossimo evidenzierò ancora una volta il problema dell’emigrazione: dall’analisi dei dati individuali su coloro che hanno chiesto il permesso di soggiorno, risulta che è molto alta la percentuale di quanti si sono ormai stabilizzati in Italia, con la famiglia, con il lavoro. I dati cioè dimostrano che se la società prende in considerazione azioni che possono servire per migliorare la situazione dei poveri e di chi si trova in situazioni di disagio, può rendere la nostra vita migliore.
E io spero che questo avvenga anche con il contributo della statistica». Al convegno di oggi, inoltre, presenti anche Victoria Johnson di NEF/Happy planet index, Roberto Lorusso della Campagna “DePILiamoci”, Stefano Bartolini dell’Università di Siena, Leonardo Becchetti dell’Università di Tor Vergata/Presidente Comitato etico di Banca Etica, Nello De Padova del Movimento Decrescita Felice.
Dall’America Latina all’Asia, la scarsità nelle riserve di acque rischia di ridurre del 50% la produzione agricola in diverse aree del pianeta, mentre l’innalzamento dei livelli del mare costituisce una minaccia per quasi due miliardi di persone.
E numerosi altri sono gli effetti dei cambiamenti climatici che toccano evidentemente la sicurezza alimentare e l’agricoltura, ma hanno risvolti anche sulla dimensione sociale e geopolitica, come è emerso in questa seconda giornata di Terra Futura, la mostra convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità (Firenze-fortezza da basso, fino a domenica 25 maggio). BEPPE CROCE, responsabile agricoltura non food di Legambiente, aprendo il convegno “Agricoltura e cambio di clima” ha ricordato che «le aree rurali tropicali, fortemente colpite dai cambiamenti climatici, sono le prime esposte ai rischi causati dalla crescente frequenza di cattivi raccolti e dalla perdita del bestiame».
È qui che vive la maggior parte degli 854 milioni che, secondo stime della Fao (2006), soffrono di fame e malnutrizioni. Persone che per lo più fonda la propria sussistenza su agricoltura, foreste, allevamento e pesca. Ma l’agricoltura è, al tempo stesso, vittima e anche uno dei principali responsabili del cambio di clima, ovviamente dopo l’energia. Allevamenti intensivi di bestiame, forniture di legno pregiato, piantagioni a uso energetico e la deforestazione, pesano per oltre il 30% sulle emissioni globali di gas serra, in particolare di metano (74%) e ossidi di azoto (stime IPCC), inoltre contribuiscono alla desertificazione del suolo e al consumo della risorse idriche.
Per CROCE la soluzione è tornare a un modello di agricoltura tradizionale, senza l’uso di pesticidi e legata alla filiera corta: «In questo senso l’alleanza fondamentale, chiave di un futuro sostenibile, è quella tra produttori agricoli e cittadini della comunità locale». Così come è avvenuto in Sri Lanka, dove l’Istituto di Cooperazione Economica Internazionale (ICEI) ha sviluppato un progetto di riabilitazione del settore agricolo post-tsunami. Spiega IBRA LEBBE MOHAMED NAJEEM, coordinatore nel Distretto di Ampara (costa est Sri Lanka): «Il nostro intervento si è basato sull’agricoltura biologica e “familiare”, ovvero sullo sviluppo di piccole aziende produttrici gestite interamente dalle famiglie (300 quelle coinvolte, per un totale di 3.000 persone).
Senza le alleanze fra le diverse estrazioni della popolazione – continua Najeem - non avremmo potuto raggiungere gli obiettivi: siamo riusciti a far lavorare insieme tre comunità (quella tamil, mussulmana e singalese) che per le loro differenze culturali e religiose non sono mai state particolarmente vicine e collaborative». Anche ARIANE ARPE, direttrice di Intermon Oxfam, una confederazione di 13 ong impegnata oggi in una trentina di paesi (in particolare america latina e africa), ha sottolineato l’importanza delle alleanze: «Noi non potremmo lavorare da soli: abbiamo moltissimi partner in quasi tutto il mondo come altre organizzazioni, sindacati e associazioni.
La maggior parte dei nostri progetti sono nell’ambito all’agricoltura, soprattutto con interventi legati all’impatto dei cambiamenti climatici sui piccoli produttori». «Il tema della sicurezza alimentare – aggiunge – connesso all’aumento del prezzo dei prodotti, è un problema del modello di sviluppo. «La riconversione verso l’agricoltura sostenibile non è un lusso per pochi ma una necessità per tutti» questo il pensiero di MARIA GRAZIA MAMMUCCINI, amministratore ARSIA Regione Toscana, che continua: «Ormai è chiaro e provato che l’agricoltura biologica è in grado di mitigare gli effetti negativi sul clima.
A lungo termine l’agricoltura sostenibile risulta più economica di quella industriale: i costi per far fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici sono sicuramente più alti del costo dell’agricoltura biologica». Sul tema della natura e sul rapporto tra natura e mercato è intervenuta anche VANDANA SHIVA, fondatrice dell’Istituto Indipendente Research Foundation for Science, Tecnology and Ecology, Nuova Delhi: «l’emergenza cibo cui stiamo assistendo deriva da un modello di crescita economica e di finanza collegato alla scarsità ecologica-alimentare, perché basato sulla esclusione di molti dalle risorse, a vantaggio di pochissimi.
L’idea dominante che le risorse siano un problema è, in realtà, una pura invenzione dell’ingegneria genetica e del mondo dei brevetti». Pensiamo all’esempio dei semi e alla loro tutela, per cui la Shiva si sta battendo da anni: «I semi non si esauriscono mai, e non devono avere bisogno delle multinazionali per vivere. Alla Conferenza mondiale sulla diversità biologica di Bonn è emerso che sono 532 i brevetti presi dall’industria biogenetica per creare semi di piante resistenti al cambiamento climatico, alle alluvioni, alla siccità… ma i semi sono un bene comune per eccellenza! Così mentre la biodiversità viene uccisa ogni giorno e i profitti delle multinazionali aumentano, i contadini invece si suicidano, costretti a comprare i semi che prima avevano gratis in tutte le stagioni».
E delle implicazioni dei mutamenti del clima anche sui movimenti migratori e sui diritti umani si è parlato ieri a Terra Futura: Amnesty International e Nuova Ecologia (il mensile di Legambiente) hanno presentato un dossier redatto a quattro mani dedicato al tema (“Dossier sui diritti umani e ambientali”). L’UNDP (United Nations Development Programme) stima in 344 milioni gli individui esposti a cicloni tropicali, 521 milioni a inondazioni, 130 milioni a siccità e 2,3 milioni a frane, Per l’IPCC sono 250 milioni le persone minacciati dalla crisi idrica.
Numeri che con ogni evidenza disegnano conseguenze anche sul piano della geopolitica, perché sono 150 milioni (dati Onu) le persone che rischiano di dover abbandonare il proprio paese entro il 2050 per catastrofi naturali causate dai cambiamenti climatici. Ma chi sono gli “ecoprofughi”? una sorta di fantasmi: persone senza riconoscimento giuridico internazionale, non rientranti nella definizione di Ginevra, dunque senza diritti. “Appare sempre più necessario aprire una nuova stagione in cui l’ambiente, la salute e il lavoro divengano diritti prioritari – afferma MAURIZIO GUBBIOTTI della segreteria nazionale di Legambiente –.
E il problema non è solo legato al riconoscimento di uno status giuridico ai profughi ambientali, la vera urgenza consiste nel capire che molte questioni legate all’ospitalità e all’accoglienza nei nostri Paesi devono in primo luogo essere affrontate attraverso un serio impegno collettivo nella lotta ai cambiamenti climatici”. Il mancato rispetto dei diritti ambientali ha fortissime ricadute sui diritti umani. FLAVIANO BIANCHINI, ricercatore ambientale e attivista dei diritti:« Alcune popolazioni sono costrette a spostarsi a causa di insediamenti di compagnie che sfruttano in maniera totalmente indiscriminata le risorse ambientali».
Tragico un caso in Honduras, dove un’azienda utilizzava il cianuro per l’estrazione dell’oro in una miniera a cielo aperto, avendo una scuola a meno di 100 metri. Conseguenza: un’altissimo tasso di mortalità infantile con picchi dell’80%, e una media di 8 bambini su 10 che non arrivavano a 19 anni. Oggi è stata anche presentata da Legambiente la “MARCIA PER IL CLIMA” in programma il 7 giugno a Milano, una manifestazione, a cui hanno aderito quasi 60 organizzazioni del non profit, per sollecitare interventi e politiche sul problema dei mutamenti climatici.
Terra Futura è promossa e organizzata da Fondazione Culturale Responsabilità Etica Onlus per conto del sistema Banca Etica (Banca Etica, Consorzio Etimos, Etica SGR, Rivista ”Valori”), Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c., e realizzata in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete, Legambiente, in collaborazione con Provincia di Firenze, Comune di Firenze, Firenze Fiera SpA, e numerose altre realtà nazionali e internazionali.
Più sostenibilità in agricoltura per mitigare i cambiamenti climatici.
E' questo il tema portante del seminario "Agricoltura e cambio di clima" coordinato da Beppe Croce, responsabile agricoltura non food di Legambiente e da Karl Ludwig Schibel di Alleanza per il Clima e Comitato Scientifico Terra Futura, tenuto questa mattina a Terra Futura. Tra i relatori anche Francesco Ferrante della segreteria nazionale di Legambiente, Vandana Shiva, presidente della Commissione Internazionale sul futuro dell'Alimentazione e dell'Agricoltura e Debi Barker, coordinatore International Forum on Globalization.
Tra mutamenti climatici e agricoltura il legame è stretto. Il settore, infatti, è uno dei più colpiti dal cambio di clima ma, nei suoi modelli intensivi, l'agricoltura è anche responsabile del fenomeno. Per dare spazio ad allevamenti di bestiame, forniture di legno pregiato e piantagioni a uso energetico, si alimenta la deforestazione di paesi tropicali, aggravando ulteriormente il bilancio di emissioni. Cresce inoltre l'insicurezza alimentare, come ha confermato la Fao nel suo rapporto 2006 sull'argomento, stimando in 854 milioni le persone colpite da fame e malnutrizione nel mondo.
Di queste, il 96% vive nei paesi del Sud del mondo e dipende in gran parte da agricoltura, foreste, allevamento e pesca. L'aumento della temperatura terrestre anche se in forme più attenuate non lascia immuni neppure le nostre latitudini, come dimostra il rapporto 2007 sullo stato delle Foreste italiane. L'80% delle vegetazione forestale nazionale è interessata dalla diminuzione delle precipitazioni piovose e molte delle zone boschive più a rischio (da Boscolungo a Camaldoli e Vallombrosa) sono proprio in Toscana.
"L'agricoltura sostenibile e l'utilizzo della filiera corta sono i presupposti per garantire la sovranità alimentare nel mondo, mitigare la perdita di fertilità dei suoli e i rischi di erosione e ridurre le emissioni di CO2 legate allo sfruttamento intensivo del territorio – ha spiegato Beppe Croce -. La possibilità per i Paesi più svantaggiati di uscire dalla povertà è, quindi, in buona parte affidata alle scelte del mondo industrializzato, i cui attuali modelli di sviluppo alimentano il cambiamento climatico e fenomeni estremi.
Alluvioni e tsunami ma anche avanzata di deserti e zone aride o incremento di malattie endemiche già si manifestano in diverse aree del Pianeta, dall'Africa subsahariana al sud est asiatico, rendendo ancora più precarie le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone che fanno i conti ogni giorno con la fame, la miseria, le malattie". E' con queste finalità che la Commissione internazionale del Cibo, col supporto della Regione Toscana, ha presentato oggi un nuovo Manifesto sul Cambio di clima.
Ha portato inoltre testimonianze da aree colpite da eventi catastrofici, come Sri Lanka, Caraibi e Sahel, dove forme di agricoltura familiare e comunitaria hanno reso possibile il ripristino delle colture di riso per uso locale e l'adozione del biologico. Esperienze che dimostrano anche come le colture destinate alla produzione di energia e quelle ad uso alimentare possano convivere in un giusto equilibrio, favorendo l'autonomia delle popolazioni rurali e la riduzione delle emissioni di gas serra.