Peter Brook e Athol Frugard, due maestri del ‘900, due voci con o senza patria. Fugard regista e autore sudafricano parla del sudafrica e dell’aparthaid nella trilogia (1972) 'Sizwe Banzi est mort'. Nella messa in scena del Maestro (2006) è marginale la questione sudafricana se non fosse che ci rimanda al presente. Habib Dembelé, Styles in scena, con abilità ci tocca sulle nostre più recenti questioni politiche e sociali e apre lo spettacolo leggendo il giornale e tra i titoli: “Invasione della Cina...”, “L’AIDS in Africa non esiste...”.
Styles ha realizzato il suo sogno, dalla fabbrica dei bianchi dove a capo chino doveva ringraziare il grande capo per gli occhialini a norma di sicurezza, passando per un padre che non aveva mai sentito parlare di un lavoro dal nome fotografo. Sizwe entra nel suo negozio e vuole farsi fare un ritratto da mandare alla moglie e ai figli lasciati nel paese dal quale è venuto via. Pitcho Womba Konga, in scena Sizwe, è un sanspapier, un clandestino, con la sola certezza di non voler tornare da dove è venuto, primordiale arcaico e contemporaneo vuole rimanere in un luogo che apparentemente non gli offre nessuna possibilità, alla burocrazia si oppone con un “venderò patate!”, anche la sua identità che con qualche incertezza vorrebbe vedere immortalata dal fotografo Styles vacilla nel momento in cui può tornare ad esistere approfittando dei documenti di un uomo morto.
Lo spettacolo perfetto, come uno pietra preziosa dalle numerose sfaccettature, regala, oltre ai numerosi momenti di affilata ironia, una stoccata sull’altra faccia della morte che è, fortunatamente la vita e che a sua volta contiene una punta di cinica superiorità.
Cristina Conticelli