E’ morto ieri sera nella sua casa di Firenze, città in cui era nato e vissuto, Don Cuba. Da qualche tempo malato, l’anziano sacerdote rimarrà per sempre nella memoria dei fiorentini e della città. Personaggio estroverso, cappellano del carcere nelle Murate e poi a Solicciano, da sempre si è contraddistinto per la sua schietta sincerità, per la sua voce che non mancava mai di rivolgersi agli ultimi, ai bisognosi, a cominciare dai carcerati. La sua carriera di sacerdote lo vide negli anni quaranta come parroco del rione san Frediano e poi come missionario in Africa.
Tornato a Firenze si occupò poi dei carcerati, della prostituzione che imperversava sulle strade della periferia. La sua fu un'autentica vocazione ma anche un paradosso, sosteneva di aver voluto farsi prete solo perché è una professione scomoda. Un lavoro che per sua consuetudine metteva in relazione ai marciapiedi, alla redenzione dei comuni e dei bisognosi, e lo faceva nella sostanza, lottando per circa sessant’anni di sacerdozio per i diritti civili, tradendo, forse per questioni caratteriali, la forma nella quale un parroco comune professa la propria evangelizzazione.
Il suo messaggio di cristiano, e di cattolico in quanto togato, lo esprimeva nel quotidiano tra le quattro mura di un carcere, nelle confessioni di un ergastolano, nelle domeniche passate in compagnia di un detenuto a lui affidato. Don Cuba era la fucina storica di questa città, nel senso vero del termine. Di Firenze aveva visto e conosceva tutto: dai periodi storici più cruenti alle stagioni felici. Aveva visto la città ingrandirsi, espandersi verso la periferia, vivendo i passaggi espressivi della storia fiorentina, vivendo, da fiorentino di nascita, stagione dopo stagione, il bello e il cattivo tempo.
Uomo di chiesa ma anche uomo di sport, Don Cuba era affascinato dalla vita, dal mistero della nascita e della morte. Forse, aveva paura anche lui della fine e questa paura cercava, oltre la vocazione della fede, di esorcizzarla vivendo a fianco a fianco con la gente del popolo, con gli ultimi, sulle strade, sui marciapiedi, ma anche condividendo la gioia di vivere con gli altri attraverso la sua passione ciclistica e per le moto. Note sono state le sue escursioni con la bicicletta, tanto da guadagnarsi il titolo di “scalatore divino”.
Sì perché tutto poteva ricondurre a Dio, persino le due ruote. Negli ultimi tempi non aveva una chiesa per accogliere i fedeli, non aveva parrocchiani, perché la sua canonica, il suo gregge, erano la città e gli abitanti di Firenze. Una vita, la sua, tutta dedicata al vangelo, alla parola solidarietà, l’autentica ragione della propria esistenza, per la quale, per essere umile tra gli umili, per essere un prete da marciapiede, si era cambiato persino il nome di battesimo: da Danilo Cubatoli era diventato “Don Cuba”.
Abbreviando i dati anagrafici, capì nei primi anni di carriera, poteva essere più diretto, considerato il prete di tutti. Insomma uno scalatore in cerca della luce divina, se non quella dei naufraghi come sostenne una volta: ”Tutti noi siamo dei naufraghi, la vita stessa è un naufragio, e Dio è dentro di noi, basta riuscire a trovarlo”. Certo, dentro di noi, dentro di lui che dei marciapiedi faceva un altare, di un detenuto un “pescatore d'uomini”, dei giovani un fratello maggiore. Un naufragio del quale ne è uscito vincitore, perché la parola fine non ha decretato la sua sconfitta.
Don Cuba resta tra noi, ora e per sempre, attraverso il suo essere, le sue parole, il suo esempio, da prete e da sportivo, anche se Dio, colui che da sempre ha cercato, gli si è rivolto fischiando a finale di partita.
Iuri Lombardi