Giuseppe Berto è stato quel tipo d’intellettuale condannato alla rovina dalla sua difficile rubricazione. Né di sinistra né completamente di destra, troppo commerciale per essere accolto nei circoli colti, troppo colto per essere un autore commerciale. Incontrò il male di vivere, ma non seppe trasformarlo in ricchezza. Fu sovente tentato da cinema e teatro, orizzonti per i quali spesso pensava adattamenti delle sue opere narrative.
Fu così anche per Anonimo veneziano, trasformato nel 1970 da Enrico Maria Salerno in un film di grande successo; anzi, in un must assoluto del genere romantico-terminale, che ha vissuto in quegli anni un po’ oscuri e facili alla lacrima una temperie felice.
Rispetto al coevo Love Story, divenuta parimenti famosa la colonna sonora, Anonimo veneziano vanta almeno due favorevoli differenze. Innanzitutto, è l’uomo e non la donna a portare il segno della chera che lo condurrà a morte. Poi, c’è Venezia, che muore da secoli e porta con sé, da Thomas Mann a Charles Aznavour, i segni della fine imminente. Nel film, Venezia agonizza sotto i passi di Enrico e Valeria, splendidamente filmata da Marcello Gatti, che è stato non a caso uno dei più grandi direttori della fotografia del cinema italiano.
Nel testo teatrale, scarno e totalmente privo di didascalie, Venezia è un fantasma dietro i passi di Lui e Lei, giovani innamorati senza lieto fine.
La passione ha lasciato il posto alla paura di mostrare i lati peggiori di sé, e Lui ha deciso di interrompere la relazione. La morte lo porta a contatto con il niente, e rende necessario il ritorno di Lei, insieme all’unico lampo d’eternità che può lasciare una vita che fugge, i solchi quasi permanenti di un disco. La registrazione dei brani del concerto per oboe di Alessandro Marcello, eseguita con un gruppo di giovani musicisti, è una sorta di testamento spirituale, che intende tramandare a suo figlio come ricordo di sé.
E nessuna città è migliore di Venezia per redigere un testamento. Perché Venezia è l’infinito disfacimento, una Brigadoon sempre visibile, non-luogo perennemente uguale alla sua immagine, parco fossile dei sentimenti, camposanto degli amori. A Venezia si va per ricordare, magari un anno dopo, ed essere ricordati: mai per dimenticare. Giuseppe Berto aveva con Venezia un rapporto mitico, come Paolo Conte con Genova, lui anche nato in fondo alla campagna con il sole in faccia rare volte.
Venezia era l’estuario della malattia, il caldo abbraccio della depressione. Non matrigna e repulsiva come Roma, ma mortalmente placida, ideale per sparire o annullare la proprio identità. I due protagonisti del testo non si chiamano, non posseggono nomi o contorni precisi. Lui e Lei, deittici generici, un uomo e una donna oltre ogni identificazione precisa. Il loro anonimato è tipicamente veneziano. Sono due punti neri al suolo, salutati dai gabbiani, che ognuno può additare dal suo posto a sedere.
È sufficiente che siano come sono descritti, praticamente in una non-descrizione. Di Lei si dice che è bella, ma bella come può esserlo una qualunque donna bella vista attraverso gli occhi di un uomo innamorato. Di Lui non si dice se è bello. Di certo pieno di un’umanità a volte ruvida, brusca, spesso scostante, ma sempre palpitante.
Speciale S.Valentino - venerdì 14 febbraio
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Giuseppe Berto
Nato a Mogliano Veneto nel 1914, Giuseppe Berto parte volontario per l'Africa nel 1943, e viene rinchiuso in un campo di prigionia alleato nel Texas.
Nell'immediato dopoguerra dà alle stampe il suo primo romanzo, Il cielo è rosso (1947), vicende di guerra narrate senza abiurare il passato fascista, atteggiamento che vale a Berto una sorta di emarginazione da parte degli ambienti letterari e allo stesso tempo una immediata pubblicità.
Entra nel mondo del cinema e nel 1952 sceneggia Anna di Alberto Lattuada , con Vittorio Gassman, Silvana Mangano e Raf Vallone.
Ammirato da Hemingway e snobbato dai salotti della dolce vita, Giuseppe Berto cade presto vittima della depressione.
La psicanalisi lo aiuta ad uscire dalla malattia e gli ispira Il male oscuro (1964), romanzo che lo vede sperimentare una narrazione linguisticamente originalissima, per l'uso peculiare della punteggiatura. In pochi mesi vende centomila copie e ottiene i premi Viareggio e Campiello. Negli anni seguenti, Berto continuò la sua attività di sceneggiatore anche per la RAI, senza trascurare la letteratura: le opere successive, tra cui citiamo La fantarca (1965), La cosa buffa (1966) e Anonimo veneziano (1970), non ebbero la stessa incisività de Il male oscuro, e non riuscirono a spezzare l’isolamento dello scrittore dalla vita culturale italiana.
Morì, nell’indifferenza generale, a Roma nel 1978.