FIRENZE - Per buona sorte, come già ci è accaduto di considerare, l’arte contemporanea non sempre si presta alle logiche di mercato delle performance e delle istallazioni pseudo-concettuali dalla dubbia estetica, e pertanto accade d’imbattersi in quegli artisti galantuomini che portano avanti il loro percorso lontano dai riflettori, con passione e onestà intellettuale.
Con la mostra Ugo Riva. Contaminatio, l’atelier Marcello Tommasi continua la sua ricerca delle eccellenze dell’arte contemporanea, presentando questa volta un artista dedito alla “semplicità” del disegno, di matrice contemporanea e insieme attenta al passato. E la contaminazione, (contaminatio in lingua latina), è il concetto che sottende a questa piccola ma raffinatissima mostra, che presenta disegni e sculture di un artista capace di porre su un piano di dialogo la tradizione rinascimentale e manierista toscana, con il sentire artistico dell’immenso Vincent van Gogh, per raffigurare un malessere che la società contemporanea non è riuscita a lasciarsi alle spalle.
A dimostrazione che l’arte è una disciplina viva, capace di guardare avanti e dietro sé, aprendo insospettati dialoghi fra passato e presente, la serie La Sindrome di Jacopo e Vincent - 20 disegni a matita e carboncino -, fa capire le possibilità di dialogo fra due geni a loro modo ribelli verso i loro tempi. Riva si ispira agli aspetti più “spirituali” della produzione artistica di van Gogh, quella che guarda agli umili, ai contadini che ancorati alla terra conducevano una vita di dignitosa povertà, e fatiche quotidiane.
Le ritrae in pose e fogge quattrocentesche, nello stile “scapigliato” del Pontormo, ma lasciando trasparire dai loro sguardi e dalle espressioni dei volti, tutta la durezza della vita quotidiana, il vago malessere degli umili, certo, ma anche degli outsider, quali appunto furono Jacopo e Vincent. Di quest’ultimo, Riva inserisce nella serie tre ritratti, uno in abiti ottocenteschi, gli altri in rozze vesti quasi monacali, tipiche del Quattrocento toscano. Affermò lo stesso van Gogh: «Vorrei dipingere uomini e donne con quel non so che di eterno».
Sensibile a queste parole, Riva guarda all’essenza dell’uomo, e non alla sua apparenza.
Avvolgono i disegni di un’aura suggestiva, corvi, gazze e altri rapaci che l’artista affianca alle figure umane: uccelli solitamente disprezzati, o comunque poco simpatici ai più. Fra questi e gli umili, quindi, c’è comunanza di destini, parallelismo dell’esistenza. Eppure, se San Francesco li “riabilitò” predicando proprio a loro il Vangelo nelle campagna umbra, allo stesso modo l’arte trae dall’oscurità quelle fasce sociali solitamente ai margini. Come van Gogh che ritrasse i contadini fiamminghi e bretoni, Riva disegna un universo di poveri, anziani, viandanti, più o meno affamati, più o meno laceri, ma sempre profondamente umani. Personaggi nei quali ci imbatte ancora oggi in una qualsiasi periferia urbana.
Parimenti suggestive le crocifissioni, di drammatica atmosfera botticelliana, con il Cristo segnato dalla sofferenza. Un approccio realista non tanto nell’anatomia, quanto nella verità del dolore. Invece, i carboncini delle figure femminili rimandano sia alla grazia di Piero della Francesca, altra raffinata contaminazione cercata da Riva, sia, nella serie Le stagioni, alla maniera di Rosso Fiorentino, pittore ufficiale della corte francese per oltre un decennio, recupera la nobile tradizione del Quattrocento toscano di Masaccio e Donatello, osservandola in versione aggiornata nelle opere, fra gli altri, di Albrecht Dürer; e questa “durezza”, poco frequentata nel Rinascimento italiano, emerge anche dai carboncini di Riva, per il quale la presenza fisica umana nelle sue opere è quasi un “dovere morale”, di chi si sente pittore dell’uomo, per l’uomo.
I numerosi studi e bozzetti in mostra, e lo stesso carattere di “non finito” che aleggia su molti disegni, apre una riflessione sul fascino dell’opera d’arte ancora in fieri, quando l’intuizione dell’artista è appena abbozzata.
Arricchisce l’esposizione una piccola ma significativa scelta di sculture, in bronzo e terracotta, che omaggiano sia il tema della maternità, sia, di nuovo, le Stagioni di Rosso. Da quei corpi, emerge netto il raffinato richiamo a quell’armonia del corpo e dello spirito che Platone identificava nella Bellezza. E un fine umanesimo sottende alla realizzazione delle sue opere, sensibile alla necessità di indagare le tematiche profonde dell’esistenza, troppo spesso ignorate, perché l’esistenza stessa si è trasformata in un banale caos d’immagini, suoni, atteggiamenti, che relegano l’individuo a mero comprimario di logiche a lui lontane, estranee alla sua dimensione di essere dotato di libero arbitrio.
Osservando attentamente i volti e i corpi cui l’artista dà vita, senza che quasi ci se ne accorga il pensiero si volge verso quei Miti inquietanti cantati in prosa poetica da Blaise Cendrars, (l’inappartenente e tormentato autore di origini svizzere), personaggi legati a un immaginario onirico e arcaico insieme. E la bravura di Riva sta nel saper infondere alla figura umana quel carattere mitico e soprannaturale che forse l’umanità primordiale ha per un attimo posseduto.